Le quattro crisi/ La sinistra che cade in Europa

di Alessandro Campi
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Martedì 6 Dicembre 2016, 00:05
Nell’epoca della politica personalizzata anche vittorie e sconfitte finiscono per essere interpretate come merito o colpa di un uomo solo. In questo caso, Matteo Renzi: ha voluto il referendum sulla riforma costituzionale, lo ha trasformato in un plebiscito politico sulla sua persona e lo ha perso rovinosamente.

Le dimissioni da capo del governo, in diretta televisiva a dispetto del nostro essere formalmente una democrazia parlamentare, non sarebbero state altro che la naturale conseguenza dei suoi errori. Sbagli, paghi. È la democrazia del leader, bellezza!

Ma ridurre a fattori soggettivi (e dunque fatalmente congiunturali) l’esito del voto di domenica rischia di farci prendere un abbaglio sul piano dell’analisi. Se Renzi ha sbagliato – come molti dicono in queste ore – nel comunicare i contenuti tecnici e il significato politico della sua riforma, nel mantenere un atteggiamento che parecchi elettori hanno giudicato altezzoso, spregiudicato ed eccessivamente arrembante, nell’alimentare paure e timori che la realtà del dopo-voto sembra aver smentito, nel mettersi da solo contro tutti, lo ha fatto però all’interno di un quadro storico-politico generale per lui obiettivamente penalizzante.

È come se si fossero fatalmente sommati tra di loro quattro fattori di crisi – non tutti riconducibili alla sola Italia – che Renzi, per quanto politicamente abile e veloce lo si voglia considerare, difficilmente avrebbe potuto controllare e governare, tanto da esserne stato alla fine travolto.

Il primo fattore è evidentemente quello economico, che ha già contribuito alla rovina politica di altri leader in carica. Mille giorni non sono bastati al suo governo per invertire la rotta in una forma che fosse concretamente percepibile dai cittadini, al di là delle cifre sulla crescita produttiva e sull’andamento dell’occupazione sbandierate in questi mesi come traguardi percentuali straordinari. La massiccia adesione del Sud d’Italia al “No” si spiega in gran parte come risposta polemica ad un disagio sociale e a difficoltà materiali nella vita ordinaria delle persone che tutti gli esecutivi, prigionieri della mistica del rigore finanziario e della stabilità nei conti pubblici, continuano colpevolmente a sottovalutare. Parliamo di una crisi – prima finanziaria, poi dell’economia reale – che in Europa dura da quasi un decennio e che nessuna ricetta, né quelle tentate da Bruxelles, né quelle perseguite dai governi nazionali, è riuscita sinora a frenare o a mitigare nei suoi effetti. Il risultato è un’onda di risentimento e protesta che ad ogni appuntamento elettorale si scarica su chi governa, quale che ne sia il colore politico o il programma.

C’è poi da considerare la crisi internazionale – culturale e organizzativa – della sinistra, che negli ultimi anni ha portato alla scomparsa o alla drastica riduzione sul piano dei consensi di tutte le diverse espressioni del socialismo democratico e riformista. Renzi sembrava un’eccezione in quel panorama di rovine e sconfitte che è ormai la sinistra in tutta Europa. Tanto che lo si indicava come un modello o un punto di riferimento dopo il tracollo del socialismo storico registrato altrove: dalla Francia alla Grecia, dalla Spagna alla Gran Bretagna. Ma la sua proposta di una sinistra riformista-liberale e modernizzatrice, capace anche di intercettare il voto centrista e moderato, centrata su una forte leadership, attenta più al merito individuale che all’eguaglianza sociale, deve essere apparsa troppo audace ed eccentrica rispetto alla tradizione che si riprometteva di innovare. Il problema è che l’alternativa a questa formula – ben incarnata dalla minoranza interna del Pd – è quella di una socialdemocrazia di taglio novecentesco impegnata a difendere ideologicamente forme politiche storicamente superate o fortemente in crisi: il partito di massa, il welfare state universalistico, la democrazia consociativa, le grandi organizzazioni sociali di mediazione (a partire dai sindacati) ecc.

Nella sconfitta di Renzi molto ha pesato anche la crisi generale delle democrazie rappresentative contemporanee, percepite dagli elettori come sempre più oligarchiche e autoreferenziali, nonché come sempre più prive di una loro autonomia decisionale. I governi – si sostiene – da un lato non ascoltano più i cittadini, dall’altro sono eterodiretti dagli organismi sovranazionali privi di legittimazione popolare. Renzi ha pensato di affrontare la divaricazione crescente tra classe politica ed elettori, che è un fenomeno anch’esso europeo e che sta alla base della crescita dei movimenti di protesta e antisistema, ricorrendo a dosi di populismo omeopatico e facendo proprio il linguaggio dell’antipolitica. Basta guardare agli argomenti con cui ha cercato di difendere il suo progetto di riforma costituzionale: come un modo per ridurre i costi della politica e mandare a casa un po’ di parlamentari. Ma evidentemente su questo terreno è apparso meno credibile di quei partiti e movimenti – dalla Lega al M5S, per restare all’Italia – che basano tutta la loro propaganda sull’invasività politica di Bruxelles, sui privilegi della casta e sulla retorica della “rottamazione”. Se la formula delle “grandi coalizioni” alimenta la protesta di chi si ritiene messo ingiustamente ai margini del sistema, inseguire i populisti sul loro terreno è un altro modo per legittimarli e farli crescere.

Il quarto e ultimo fattore di crisi è tutto italiano: la difficoltà a costruire e stabilizzare, dopo la crisi della partitocrazia della Prima Repubblica, un sistema politico-istituzionale d’impronta maggioritaria, basato sull’alternanza funzionale tra i grandi partiti popolari. Ci ha provato a suo tempo Berlusconi da destra senza riuscirci. Come non ci è riuscito oggi da sinistra Renzi. Dopo vent’anni in cui si è parlato di modificare l’architettura istituzionale dell’Italia, con l’obiettivo di semplificarne i meccanismi decisionali, si deve prendere atto di un fallimento storico, che sembra preludere ad una sorta di sconsolante ritorno al passato con nostalgie consociative. Non a caso si parla di ripristinare una formula elettorale di stampo proporzionalistico.

Renzi ha perso, dunque. Ma per ragioni profonde e strutturali, non perché superbo, antipatico e troppo sicuro di sé. E non ha vinto chi voleva frenare la deriva autoritaria dell’Italia, ma chi ha incarnato la rabbia, le paure e il malessere degli elettori senza avere alcuna ricetta politica da proporre. Ce ne accorgeremo presto.
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