Se Trump, tolte le gaffe, è promosso in economia

di Oscar Giannino
6 Minuti di Lettura
Venerdì 19 Gennaio 2018, 00:01
Si avvicina il secondo discorso sullo Stato dell’Unione di Donald Trump, e domani sarà un anno esatto dal suo insediamento formale: è il caso dunque di farne un bilancio realistico. Composto di una breve premessa, un’osservazione su ciò che si temeva e non è avvenuto, e diverse considerazioni invece su ciò che in economia Trump ha fatto davvero.

La premessa è ovvia. Riguarda l’aliena eterodossia del suo stile di leadership. I grandi Paesi del mondo, nella modernità dell’era digitale e del just in time della connessione planetaria, non solo non hanno mai visto, ma neanche immaginato niente di simile, prima di lui. Una mercuriale incontrollabilità di messaggi diretti al mondo attraverso la costante bulimia di twitter. Ogni canale diplomatico tradizionale saltato. Continue gaffe e marce indietro. Dalla Cina che andava piegata ad America First, e dove poi invece firma impegni per decine di miliardi di dollari chiedendone l’impegno contro la Corea del Nord. Alla Russia di Putin prima sin tropo amica, poi ostile perché Trump aiuta i Paesi esteuropei militarmente contro Mosca, poi di nuovo amica in Siria. Un ballo continuo che consuma collaboratori della prima ora e mette alla porta financo il fidato Steve Bannon, l’ideologo della rivolta contro l’establishment sia democratico sia repubblicano. E che copre di una rete indecifrabile di segnali contrapposti il tentativo giudiziario di colpire da vicino la cerchia e la famiglia Trump, sotto l’accusa di aver avuto sostegni da Putin. 

Nessuno può sapere dove questo zigzagare falstaffiano potrà sfociare. Certo è che è la maniera di Trump – consapevole o caratteriale ne sia la scelta – è il modo di corrispondere a quell’irrisione delle élite dirigenti, dei loro riti e delle loro procedure decisionali e di governo, che la parte preponderante del suo elettorato gli affidò come mandato della vittoria. E che spinse alcune migliaia di operai per lo più bianchi a decretarne l’inatteso trionfo, tra gli Appalachi e il Michigan, rispetto alla maggioranza dei voti popolari comunque vanamente incassati dalla Clinton. Il situazionismo destruttura immagine e idea stessa della severa compostezza lincolniana. E ha un precedente storico lontano, quello di Andrew Jackson, settimo presidente americano nel terzo decennio dell’Ottocento, il forgotten man che credeva anch’egli in America First.

Detto questo, a un anno di distanza è ciò che si temeva e non è avvenuto, a decretare un primo grande successo imprevisto di Trump. La sua leadership declamatoria è deliberatamente non conseguente nei fatti. Come in una continua campagna elettorale. Aveva promesso la guerra commerciale alla Cina, da cui gli Usa importano ogni anno 500 miliardi di dollari esportandone solo per 100 miliardi, e invece niente. L’enfatico compimento del muro al confine del Messico è di fatto bloccato. L’Obama Care è stato scalfito, ma non abbattuto. Nessuna nuova guerra, e tanto meno nucleare alla Corea del Nord. E’ uscito dal Tpp, il trattato multilaterale commerciale asiatico, ma la Cina lo detestava come una cintura di alleati americani che la escludeva, quindi Pechino ne è felice. Contro il Nafta molti annunci, ma di fatto il più dei settori industriali americani hanno spiegato a Trump in lungo e in largo che è meglio migliorarlo ma non abbatterlo, preservando un mercato nordamericano aperto e integrato. Nel corso del 2017 Washington ha bloccato la nomine dei nuovi arbitri del Wto per le controversie commerciali internazionali, ma il temuto sradicamento dell’Organizzazione Mondiale del Commercio non ci sarà. Gli Usa sono usciti da Cop 21 e dal contenimento concertato delle emissioni a fini climatici e ambientali: ma il più delle politiche green negli Usa sono statali e non federali, e restano in piedi. 

Risultato: il commercio mondiale non soffre, come si temeva, di alcun rallentamento da guerre protezionistiche su vasta scala, anzi continua a rafforzarsi trimestre dopo trimestre. E i prezzi del barile e delle commodities risalgono, rispecchiando l’aumento della domanda e ricreando margini di crescita per i Paesi emergenti, Russia e Arabia. Il grande tornado non c’è stato, e non si vede più all’orizzonte.

Dopodiché arriviamo a quel che Trump e la sua squadra hanno fatto davvero. Le nomine alla Corte Suprema e alla Fed hanno ribadito la maggioranza conservatrice ma non ideologica della prima istituzione, e confermato una linea di ripresa al rialzo dei tassi ma molto prudente e graduato, nella politica monetaria. Nessuna grande irresponsabile rottura di cui temere le conseguenze.

Infine, la grande riforma fiscale approvata a fine dicembre, smentendo tutti i corvi che consideravano impossibile la sua approvazione da parte di un partito repubblicano che Trump continua ostinatamente a prendere a schiaffi. E’ stata limata, sono rimaste sette aliquote sul reddito delle persone fisiche, abbassandole in modo che a pagare di più sarà solo tra il 5% nel primo anno e il 9% dei contribuenti dal 2025, ma l’80% a versarne dimeno. Si sono eliminate molte detrazioni - soprattutto per le imposte statali e locali - a fronte però del raddoppio di quella standard e del credito d’imposta sui figli a carico. Ovviamente, in proporzione al reddito, i maggiori guadagni sono per i più ricchi. Ma prudentemente il Congresso ha innestato nella riforma un fermo automatico di qui ad alcuni anni, se per caso il deficit prodotto, e che alcuni stimano di 1,5 trilioni di dollari in un decennio, risultasse davvero tale e insostenibile. Cioè non equilibrato da più crescita 

Però la Corporate America ha di che brindare copiosamente, per ciò che rappresenta la leva più forte nella riforma fiscale. Cioè l’abbattimento di 14 punti percentuali dell’aliquota sul reddito d’impresa, dal 35% precedente al 21%, con uno scudo per il rimpatrio dei 2,5 trilioni di dollari di utili che le multinazionali americane tenevano parcheggiati all’estero, proprio per evitare l’aliquota statunitense troppo alta.

I risultati di questa svolta filo -imprese si son visti subito. Tutti i giganti di Silicon Valley e della rete stanno annunciando in queste prime settimane reimpatri di risorse finanziarie dall’estero per miliardi. La Chrysler di Marchionne ha appena deciso di chiudere uno stabilimento in Messico per spostarlo a Detroit, e Trump l’ha ringraziato superando il vecchio pregiudizio che fosse amico di Obama. E’ per questa grande bonanza fiscale, che Wall Street ha inanellato un’impressionante serie di decine e decine di sedute con record al rialzo, pressoché senza precedenti nella storia americana (e sin tropo generose, c’è aria di bolla). Ed è per questo che le proiezioni di crescita Usa sono tornate a salire dal 2,1-2,2% annuo verso il 2,5-2,6%%, con aumenti analoghi attesi anche per gli anni a venire. Frutto dei maggiori consumi da meno tasse ai contribuenti, e maggiori investimenti delle imprese sul mercato domestico grazie ai maxitagli sull’Ires.

L’Europa che s’interroga sulla sua nuova governance è potentemente sfidata dalla riforma fiscale di Trump. E’ anche da alcuni Paesi europei, come Irlanda e Olanda, che defluiranno pingui flussi finanziari di ritorno negli Usa . E mentre noi balbettiamo sulla capacità di realizzare grande riforme fiscali che liberino risorse per rafforzare la crescita, Washington la sua l’ha fatta, mettendo in conto di poter reggere benissimo un maggior deficit anche dell’1% di Pil annuo, in cambio però di un Pil in maggiore espansione. E di una disoccupazione che è prevista in discesa fino al 3%, se non addirittura al di sotto.

Certo, Trump è un animale politico imprevedibile e instabile. Ma finora, inopinatamente, la somma delle sue tante sconfitte e dei suoi maggiori successi ha rafforzato l’economia americana (e mondiale). Il contrario di quel che molti profetavano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA