Le scelte del leader FI/L’impossibile eredità dei partiti personali

di Marco Gervasoni
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Mercoledì 15 Giugno 2016, 00:05
L’operazione è andata bene e il Cavaliere, tempra forte, saprà rimettersi in breve tempo, come gli auguriamo. Ma vorrà votarsi di nuovo alla tenzone politica, uno degli ambiti umani più crudeli, sfiancanti e per certi versi inconcludenti? Pochi lo credono, tanto che nel suo partito sono cominciate manovre neanche lontanamente immaginabili quando, negli anni scorsi, Berlusconi ha subito altri interventi. Ma mentre nelle sue aziende e nel Milan si è impegnato a predisporre una successione, in politica il Cavaliere non sembra ancora disposto a cedere il passo, perché tutto adesso è molto più difficile.

La particolarità del caso Berlusconi non sta infatti, come molti sostengono, nel carisma, nel legame finanziario del partito alla sua persona, nella capacità strategica e di visione, che il Cavaliere ha mostrato di avere più aguzza rispetto a chiunque altro nel centro-destra. Tutti elementi presenti, ben inteso. Ma la vera ragione della sua insostituibilità fino ad oggi, pieno tramonto politico, va cercata altrove: nel ’94, di fronte alle macerie dei partiti di governo, egli è stato quattro volte fondatore. Di un partito in grado di raccogliere i moderati, Forza Italia. Di un’alleanza capace di tenere sotto la sua guida liberali, conservatori, ex fascisti e populisti (la Lega), immettendo le forze escluse nell’ordine di governo. Il Cavaliere è stato poi all’origine di un blocco sociale di imprenditori, di liberi professionisti ma anche di classi popolari.

Infine, è stato fondatore di una cultura politica originale, appunto il berlusconismo, una sorta di incontro post moderno tra liberismo economico e solidarismo popolare. Un’impresa compiuta da un soggetto estraneo alla politica fino alla età matura e che poi l’ha praticata, per un ventennio, senza tuttavia acquisirne la mentalità, mentre per anni una parte non maggioritaria (ma neppure piccola) del Paese l’ha autenticamente odiato. Troppo per le spalle pur robuste di un solo individuo e troppo da trasmettere in eredità.

Forse per questa ragione, o forse per una certa mentalità felicemente “impolitica”, Berlusconi non ha mai pensato veramente alla successione: vi ha giocato come il gatto con il topo con i suoi alleati, non ha fatto in modo di creare un nuovo gruppo dirigente e un partito da cui potesse nascere, attraverso una libera competizione, il migliore in grado di prenderne le redini. Eppure nella storia recente abbiamo casi di partiti fortemente personalizzati rimasti competitivi anche dopo l’uscita di scena del fondatore: in Italia pensiamo alla Lega o in Francia al Front national. Ma Bossi è stato prima scalzato e poi sostituito perché esisteva, al di là del capo, un gruppo dirigente da lui autonomo. Quanto a Le Pen ha scelto una delle figlie, ma prima di affidarle la guida ha fatto in modo che si formasse, e la successione neppure è stata facile. E poi, come abbiamo detto, Berlusconi non è stato solo il fondatore di un partito, è all’origine di alleanze, blocchi sociali e cultura politica.
 
L’unica analogia possibile è quella con De Gaulle. Ma il Generale, politico fino al midollo, ha per prima cosa creato la V Repubblica, nuove istituzioni per garantire la governabilità della Francia e la stessa successione nel suo partito. Che pur cambiando nomi e molto altro, ha consentito, dopo De Gaulle, la presenza di altri tre presidenti gollisti, e forse di un quarto il prossimo anno. Mentre qui da noi, almeno per il momento, l’uscita di scena di Berlusconi lascia solo un vuoto già parzialmente riempito da demagogia e populismo.
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