Pietro Grasso e Laura Boldrini, da arbitri della politica a potenziali leader

Pietro Grasso e Laura Boldrini, da arbitri della politica a potenziali leader
di Marco Conti
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Lunedì 13 Novembre 2017, 13:47 - Ultimo aggiornamento: 15:16
È consuetudine costituzionale che il presidente della Repubblica, prima di firmare il decreto di scioglimento delle Camere, si consulti con i presidenti dei due rami del Parlamento. Ultimo a farlo Giorgio Napolitano e prossimamente toccherà a Sergio Mattarella. Se non fosse che, mai come ora, più che due garanti, chiamati a rappresentare interessi che trascendono gli schieramenti, Pietro Grasso e Laura Boldrini sono talmente coinvolti nelle vicende partitiche e politiche da risultare tutt’altro che distaccati. 

Da imparziali regolatori dell’attività parlamentare i presidenti delle Camere sono diventati, e non da questa legislatura, protagonisti della vita politica. Un protagonismo che la carica alimenta a tal punto da trasformarli in potenziali leader. Colpa, forse, della struttura monocratica che fonda ruolo e potere dei presidenti delle camere, ma forse anche di un’errata interpretazione del ruolo frutto del sistema maggioritario che dal ‘94 ha segnato la vita politica italiana. La legge elettorale tornata fortemente proporzionale, la fine del bipolarismo e le difficoltà che potrebbero sorgere nei numeri dopo il voto di primavera nell’elezione dei due presidenti, potrebbero presto riproporre il tema della natura delle due cariche e chissà se non rendere di nuovo attuale quella definizione di “uomo delle istituzioni” che fu nel ‘76 alla base della elezione di Ignazio Ingrao alla presidenza di Montecitorio. 

Nel frattempo, anche questa legislatura si conclude con due presidenti aspiranti leader e in conflitto con il partito e lo schieramento che li ha portati prima in Parlamento e poi sul scranno più alto. Dal 1948 al 1994 cinque presidenti delle camere su otto sono divenuti presidenti della Repubblica, mentre ora il percorso è inverso e da candidati indipendenti eletti nei partiti, diventano parti e spesso oppositori interni e si propongono come leader alternativi.




Senza tornare a Irene Pivetti e alla sua parabola politica dopo due anni di presidenza della Camera, si può più facilmente prendere a riferimento l’ultima legislatura con Gianfranco Fini che nelle settimane che seguirono il noto  “che fai mi cacci,”, sembrava assurgere a leader di tutto il centrodestra, salvo poi nel 2013 non riuscire nemmeno a rientrare in Parlamento. Con Fini nacque la figura del “presidente d’opposizione” - come scrive in un suo saggio il costituzionalista Lippolis - che in alcune fasi sia Grasso che la Boldrini hanno interpretato. Anche se il Pd, a differenza di FI, non ha mai chiesto le dimissioni dei “suoi” presidenti.




Su come e se la dimensione pubblica e monocratica del ruolo di presidente gonfi l’attesa di trasformare la notorietà in voti potrebbero bastare le esperienze dell’ultimo ventennio, ma sia Grasso che la Boldrini non sembrano volerne far tesoro. Almeno per ora.

Marco Conti 
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