Il ruolo della Bce/Ma l’ostacolo al nuovo patto restano i veti tedeschi

di Oscar Giannino
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Sabato 27 Febbraio 2016, 00:00
C’è più carne al fuoco di quanto sembri, tra governo italiano e Commissione europea. L’incontro di ieri a Roma tra Renzi e Juncker ha segnato un tono nuovo, rispetto alle polemiche aspre dei due mesi passati. Ma quel che conta è la sostanza. E la sostanza è che il governo italiano ha sollevato un punto sulle regole di flessibilità che finalmente comincia a essere chiaro, e al quale Juncker non ha chiuso la porta.
Cominciamo dal tono. Molto conciliante e amichevole, studiatamente usato sia da Renzi sia da Juncker. Nessuna traccia più dell’attacco frontale ai “burocrati di Bruxelles”. Mettiamola così: palazzo Chigi ha provato in due mesi a verificare se l’attacco diretto producesse seguito, nella Ue. Ma non c’è stato. Di conseguenza, meglio cambiare tono. Era già del resto evidentissimo nelle 9 cartelle in cui il governo ha formalizzato giorni fa la posizione italiana in vista del confronto europeo su come affrontare la crisi in corso, dai pezzi quotidiani che Schengen lascia sul campo al rallentamento economico generale in corso. Ieri se n’è avuta piena conferma. Non c’è stato alcun riferimento al pagellone sull’Italia che intanto Bruxelles emetteva, ancora impietosamente critico verso le condizioni della nostra finanza pubblica. Oltre a farsi invece reciproci smaccati complimenti, Renzi e Juncker si sono pure abbracciati. Meglio così. L’Europa ha già troppi guai di suo, per aggiungere altro pepe in tavola. Ma veniamo ai tre punti di fondo.
 
Primo: le banche. È l'unica questione sulla quale Renzi ha tenuto a ribadire che le opinioni di Roma e di Bruxelles restano diverse. Ha detto più di quanto non sia scritto nel position paper ufficiale italiano, che esprime anzi un giudizio positivo della direttiva europea in materia. Ma non ha fatto alcun riferimento né a richieste di moratoria italiane, né al no italiano a qualunque nuovo tetto ai titoli del debito pubblico detenuti dalle banche. La questione dunque resta aperta. Non sono da attendersi eccezioni garantite all'Italia, ma entrambe le parti non considerano il punto come un ostacolo pregiudiziale. In concreto: vediamo cosa fa l'Italia su Mps, Veneto Banca e Popolare Vicenza, nella speranza che i venti mondiali avversi ai titoli bancari siano meno impetuosi.

Secondo: la flessibilità di bilancio. Il tema sul quale il confronto è stato più serrato. E, forse, anche potenzialmente più produttivo. Renzi, come già c'era scritto nel documento ufficiale italiano, ha tenuto a ribadire che ci riconosciamo integralmente nell'interpretazione della flessibilità data dalla Commissione europea. Detta così, sembra la parola fine alle richieste avanzate con decisione nelle settimane scorse. Invece no. Per capire, bisogna distinguere. Come spieghiamo in dettaglio nel resoconto dell'incontro, bisogna capire a che cosa in concreto fa riferimento Renzi, quando ribadisce «noi ci atteniamo alle regole della Commissione sulla flessibilità». Intende il documento con il quale, nel gennaio 2015, la Commissione ha interpretato il Patto di Stabilità e di Crescita fissando dei margini di discostamento dall'obiettivo di riduzione progressiva del deficit, valutati a seconda dell'andamento sfavorevole del Pil, delle riforme messe in cantiere ed effettuate, e degli investimenti. Renzi non si riferisce, invece, alla successiva interpretazione restrittiva che di quel documento è stata data a novembre scorso, dal Comitato dei rappresentanti permanenti presso il Consiglio europeo.

A novembre è stato scritto che le clausole di maggior deficit si possono usare appieno una sola volta, nel tragitto verso l'azzeramento del deficit. È questo il punto su cui l'Italia dissente.
Ed è su questo, la novità di maggior peso da registrare ieri. Juncker ha deliberatamente non toccato il tema, ribadendo che occorre pensare alla crescita come priorità. In soldoni: se restasse l'interpretazione che non è della Commissione, all'Italia nel 2017 resterebbe solo uno 0,2% di Pil di margine non usato integralmente già quest'anno sommando riforme e investimenti, da aggiungere al deficit programmatico previsto per l'anno prossimo all'1,1% di Pil. Roma chiede invece che i margini siano replicabili negli anni, tutte le volte che fosse utile e necessario, in presenza di una crescita mondiale rallentata come sta rallentando, di altre riforme varate, e di investimenti aggiuntivi. Per la legge di stabilità 2017, Renzi e Padoan pensano con questa impostazione di poter puntare a un deficit che resti tra l'1,6% e il 2% del Pil. In discesa magari di poco rispetto al 2016, ma come margine per affrontare una crescita del Pil che nel frattempo è più contenuta rispetto alle aspettative. Perché Cina, crisi dei Brics, petrolio e divergenze delle politiche monetarie frenano il commercio mondiale e amplificano la volatilità dei mercati, rimbalzando i relativi rischi sui sistemi bancari di ogni macroarea mondiale.
Renzi ritiene che il rallentamento dovrebbe indurre anche i tedeschi a riflettere. Vedremo, ma intanto la Commissione non ha detto no. Ricordiamoci tutti che sulla legge di stabilità 2017 grava oltre un punto di Pil di clausole di garanzia fiscale, cioè di aumenti di Iva e accise. Non esattamente un buon viatico per il futuro, se la crescita italiana 2016 dovesse fermarsi sotto l'1%, e quella dell'euroarea poco sopra.

Il terzo punto è un grande non detto, però il più centrale di tutti. Per un'analisi seria della flessibilità necessaria rispetto a obiettivi di crescita reale messi a rischio dagli andamenti mondiali, il grande tassello mancante è atteso per il prossimo 10 marzo. La Bce dovrà dire allora come intende riparametrare la sua politica monetaria. Il G20 finanziario in corso a Shanghai nasce sulla base di un rapporto fosco sulle prospettive di crescita globali. Il ministro delle finanze tedesco Schaueble si è presentato con un no a stimoli aggiuntivi di bilancio e no all'estensione del Quantitative Easing della Bce che sa molto di politica interna tedesca, visto che nei sondaggi è sempre più vicino alla Merkel che perde punti per via della crisi-immigrati. Ma in realtà anche le parole di Schaueble sono da interpretare. La Bce potrebbe e dovrebbe infatti assumere decisioni diverse da quelle che in queste settimane sono state date per scontate. 

Il Qe sinora funziona poco o niente, dicono i dati. L'inflazione tedesca 2015 - dato diramato ieri - ha registrato un meno 0,2%. La deflazione resta non solo tra i paesi eurodeboli, ma anche in quelli a crescita maggiore e comunque anch'essa in frenata. L'obiettivo dichiarato del +2% annuo resta lontanissimo. I tassi negativi per il deposito delle banche presso la Bce ottengono effetti contrari a quelli sperati: e anche in questo caso non solo da noi, ma a cominciare dalla Germania. Nel nostro caso pesa la montagna di crediti deteriorati, come freno a nuovi prestiti a banche e imprese. Ma dovunque nell'euroarea è in azione un freno analogo: nell'incertezza di crescita e mercati globali, gli investimenti languono, e per non pagare la tassa sulla liquidità alla Bce rappresentata dai tassi negativi le banche parcheggiano i fondi altrove. In più, l'azzeramento dei margini d'intermediazione rappresenta una falcidie per la profittabilità delle banche. Altroché abbassare ulteriormente i tassi negativi, dunque, seguendo l'esempio di Svezia, Norvegia e Giappone. La Bce dovrebbe e potrebbe volgere lo sguardo altrove. Per esempio riconsiderare i tipi di euroasset finanziari acquistabili coi suoi interventi sui mercati. Estendendoli a famiglie di emissioni diverse dai titoli pubblici e dunque evitando il veto tedesco, ma a effetto più diretto sul patrimonio di banche e imprese. 
Non è facile per una banca centrale, una simile inversione di tendenza. Ma è anche vero che l'errore della Fed è davanti agli occhi di tutti: la banca centrale americana ha cincischiato un anno e mezzo dicendo che iniziava a rialzare i tassi, e quando l'ha fatto non solo non serviva più, ma ha scatenato un effetto domestico e mondiale opposto a quello che si prefiggeva. Vedremo dunque quanto coraggio avrà la Bce. Ma in un mondo a vincoli globali, di crescita e di frenate, la debolezza europea ha bisogno insieme di una politica monetaria e fiscale coordinate e vigorose, se non vogliamo fare il vaso di coccio.

 
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