La posta in gioco/ I tre errori da evitare per salvare le riforme

di Alessandro Campi
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Martedì 27 Settembre 2016, 00:15
La decisione ufficiale sulla data del referendum costituzionale - fissata per il prossimo 4 dicembre dal Consiglio dei ministri di ieri - ha il vantaggio, se non altro, di mettere la parola fine ad una polemica che era già diventata stucchevole, relativa appunto al giorno in cui gli italiani sarebbero stati chiamati alle urne. Le opposizioni propendevano per il 27 novembre. 
Ma quale il vantaggio per il governo di votare una settimana dopo invece che una settimana prima nessuno, tra i sostenitori del “no”, ha saputo spiegarlo in modo convincente. Renzi avrebbe più tempo per la sua propaganda? Ma lo stesso tempo in più avrebbero anche i suoi avversari. Si teme che il governo possa comprarsi il consenso introducendo qualche regalia nella legge di stabilità? Ma così ragionando non si fa un gran complimento agli italiani. C’è chi teme, infine, che votare a ridosso dell’Immacolata possa incentivare l’astensionismo, ma non si capisce anche in questo caso perché un minore afflusso alle urne dovrebbe favorire i fautori delle riforme e penalizzare chi le avversa. 

Non meno pretestuosa - e forse persino autolesionistica per chi l’ha promossa - sembrerebbe l’altra polemica su ciò che i votanti troveranno scritto sulla scheda. Che poi non è altro che il titolo stesso della legge costituzionale licenziata dalle Camere dopo ben sei votazioni.
Se lo si riteneva propagandistico e distorsivo, con quel suo riferimento esplicito alla fine del bicameralismo paritario, alla riduzione dei parlamentari, al contenimento dei costi delle istituzioni e alla soppressione del Cnel, forse bisognava pensarci prima, invece di accusare sottovoce la Cassazione di un’eccessiva acquiescenza nei confronti dell’esecutivo. Si sfiora il paradosso, se non il ridicolo, sostenendo che sarebbe più neutrale, equo e democratico un quesito referendario, magari incomprensibile e contorto, ma espresso in un rigoroso linguaggio tecnico-giuridico. Ma nel caso dei precedenti referendum non ci si era lamentati proprio perché ci si rivolgeva agli elettori con domande astruse e indecifrabili?

Polemiche a parte, ci si chiede quale sarà l’andamento della campagna elettorale che a questo punto si apre ufficialmente. Si riuscirà a entrare nel merito della riforma, come auspicato dal Quirinale, o ci si continuerà a contrapporre in modo pregiudiziale e ideologico? Sarà un confronto politico o una rissa tra fazioni? L’impressione è che tono della campagna ed esito del voto dipenderanno in larga parte dalle scelte - in termini di comunicazione - che farà Matteo Renzi. Abilissimo, come si sa, nella scelta delle formule, delle parole d’ordine, dei tempi e degli strumenti con cui rivolgersi ai cittadini, ma che in questa battaglia - vista l’importanza della posta in gioco - dovrebbe cercare di evitare tre errori in particolare: la personalizzazione, la drammatizzazione, la banalizzazione. 
È stato un passo falso, a suo tempo, legare il proprio futuro politico all’approvazione della riforma. Se Renzi ha accarezzato l’idea di un plebiscito sulla sua persona, che in qualche modo lo legittimasse e rafforzare nella prospettiva delle elezioni politiche, le opposizioni ne hanno subito approfittato per presentare il voto come un’occasione per mandarlo a casa. L’errore è stato in parte corretto dallo stesso presidente del Consiglio, ma andrebbe definitivamente cancellato con l’argomento - storicamente ben fondato e peraltro d’indubbia presa mediatica - che quella per cui gli italiani sono chiamati ad esprimersi non è, banalmente, la legge Boschi-Renzi, ma l’esito di un processo costituente che dura in Italia da quasi quarant’anni e che forse il prossimo dicembre potrebbe finalmente concludersi.

In un libro appena uscito (L’Italia che cambia, Rubbettino), il costituzionalista Giovanni Guzzetta ha mostrato bene come quest’ultimo progetto di riforma, lungi dall’essere politicamente estemporaneo, riprenda in realtà proposte, soluzioni e ricette che hanno circolato per anni nel dibattito politico-istituzionale italiano, al punto che è oggi persino difficile stabilirne la paternità. Il “sì” non sarebbe un sostegno personale a Renzi, ma un voto politico con il quale si chiuderebbe positivamente, dopo tante inutili discussioni, la questione istituzionale italiana.
Bisognerebbe poi evitare gli inutili (e controproducenti) allarmismi. Il voto inglese sulla Brexit ha dimostrato che non è spaventando gli elettori che se ne conquistano le simpatie. Più volte, nel corso delle ultime settimane, abbiamo sentito autorevoli fautori del “sì” sostenere che se la riforma non dovesse essere approvata l’Italia rischia una grave recessione economica. Se i fautori del “no” hanno deciso di puntare, dal punto di vista della propaganda, sul pericolo di una deriva autoritaria questa è già una buona ragione per non seguirli sulla stessa strada. 
Renzi avrebbe tutto l’interesse, invece che alimentare a sua volta una lettura ansiogena del voto, a insistere su quella che, al di là dei singoli schieramenti politici, è la vera linea di divisione in questo referendum: gli innovatori contro i conservatori, coloro che accettano le sfide del futuro contro coloro che si compiacciono di idolatrare il passato. 

L’ultimo rischio è quello di un’eccessiva semplificazione dei contenuti della riforma, al limite della loro banalizzazione. L’idea, più volte ventilata dallo stesso premier, che si debba cambiare la Costituzione soprattutto per ridurre i costi della politica e per eliminare i privilegi della casta, magari può incontrare il consenso immediato e istintivo degli elettori, ma se troppo enfatizzata potrebbe rivelarsi fastidiosa e politicamente povera anche per questi ultimi. Bisognerebbe ricordare che è sempre pericoloso (oltre che inutile) inseguire i populisti e i demagoghi sul loro terreno. Ci sono molti aspetti della riforma – ad esempio il nuovo modello di regionalismo o il potenziamento degli strumenti di partecipazione e democrazia diretta che essa introduce – che meritano di essere portati all’attenzione dell’opinione pubblica nelle prossime settimane, invece di limitarsi ad assecondare gli umori antipolitici che sono, essi sì, la vera minaccia della democrazia italiana. Non ci resta che aspettare, a questo punto, quel che farà Renzi.
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