I punti irrisolti/ Nella riforma della giustizia un passo avanti e due indietro

di Carlo Nordio
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Giovedì 15 Giugno 2017, 00:54
Per chi è digiuno di giuridichese, occorre una premessa. Il codice penale, che prevede i delitti e le pene, è stato promulgato nel 1930 ed è firmato da Mussolini. Dopo settant’anni di Costituzione “nata dalla Resistenza” questo codice regge ancora, ed è stato modificato solo in modo marginale. Al contrario, il codice di procedura penale, che disciplina lo svolgimento delle indagini e del processo, ha meno di trent’anni, ed è firmato da Giuliano Vassalli, partigiano valoroso e illustre giurista. 

Ebbene, questo codice, sulle cui modifiche ieri il governo ha posto la fiducia, è stato ristrutturato, emendato, corretto, integrato e rettificato almeno un centinaio di volte. Per di più, la Corte Costituzionale (dove, paradossalmente sedeva il professor Vassalli) ne ha dichiarato alcune parti manifestamente irragionevoli. Questo la dice lunga sulla capacità tecnica del nostro legislatore di affrontare una sua riforma sistemica.
Ieri, l’ennesimo tentativo ha riguardato, tra le altre cose, la prescrizione e le intercettazioni. Due terreni minati sui quali sono saltate, nei decenni, parecchie maggioranze. La soluzione ha scontentato magistrati e avvocati, e questo è abbastanza normale. Senofane affermava che se un triangolo potesse immaginare Dio, lo descriverebbe come un triangolo: intendeva dire che ognuno vede le cose secondo la lente deformante dei propri pregiudizi.
Così i Pm chiedono più rigore, e i difensori più garanzie. Purtroppo la riforma non accentua il rigore e diminuisce le garanzie. Un pasticcio che si aggiunge ai precedenti.

La prescrizione. Essa consiste nell’estinzione del reato per decorso del tempo, e ubbidisce a due criteri: la perdita dell’interesse dello Stato a punire il reo dopo un certo periodo dalla commissione del crimine, e il diritto del cittadino ad avere una sentenza definitiva in tempi ragionevoli, il cosiddetto giusto processo garantito dalla Costituzione. Ora, gli attuali termini di prescrizione sono troppo brevi per giustificare la rinunzia dello Stato a punire, ma anche troppo lunghi per la tollerabilità emotiva di una persona inquisita. Si prenda la frode fiscale, o la gran parte dei reati economici: si prescrivono, grosso modo, in otto anni. È ragionevole pensare che dopo così poco tempo lo Stato perda interesse a incriminare l’evasore? Evidentemente no, anche perché questi reati sono di accertamento difficile, richiedono esami documentali, riscontri bancari e altro: quando arriva la denuncia metà dei termini è già trascorsa. E nessuno griderebbe allo scandalo se fossero aumentati, e anche raddoppiati. Ma sette o otto anni sono anche troppi per la durata di un processo. Uno Stato che non sappia concludere in un tempo così lungo è a dir poco incivile: perché per l’inquisito, innocente o colpevole che sia, questi anni sono un’eternità. Ora questi termini vengono aumentati. Perderemo la faccia, davanti a Dio e all’Europa, e non guadagneremo in Giustizia. Eppure il rimedio ci sarebbe. Basterebbe far decorre i termini di prescrizione non, come accade ora, dalla commissione del delitto , ma dal momento in cui il malcapitato viene inquisito. Distinguere cioè la prescrizione del reato, che è troppo breve, da quella del processo, che è troppo lunga. Prediche inutili. 

Le intercettazioni. Qui lo sforzo del governo è certamente encomiabile, ma assolutamente vano e velleitario. La riforma vuole (vorrebbe ) evitare che finiscano sui giornali le intercettazioni irrilevanti, che spesso “sputtanano” (per usare un’espressione icastica dell’onorevole D’Alema) il cittadino estraneo all’indagine. È un obiettivo sacrosanto, ma la battaglia è persa in partenza. Perché la decisione sulla rilevanza o meno delle conversazioni è devoluta al Pm e al Gip, in contraddittorio con le parti. Come dire che, nel frattempo, i famigerati brogliacci della Polizia saranno finiti tra mille mani, e in caso di divulgazione sarà impossibile individuarne il responsabile. 
Non solo: la decisione del Pm e del Gip sulla rilevanza è insindacabile. Se quindi un magistrato fantasioso ritenesse che alcuni dialoghi intimi fossero significativi nel cosiddetto contesto, nulla gli impedirebbe di trascriverli rendendoli, alla fine, di pubblico dominio. È quello, del resto, che si sta facendo da anni, anche se esiste una norma assai simile a quella ieri promulgata: è l’ articolo 268 del codice di procedura, quello del defunto professor Vassalli. Ma questa norma è stata così male applicata e interpretata dai magistrati che ha perso completamente significato. A conferma del noto detto di Platone che è meglio avere una legge cattiva a e un giudice saggio, piuttosto del contrario.
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