L’accidentato percorso della riforma della giustizia

di Alessandro Campi
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Giovedì 29 Settembre 2016, 00:32
Si sapeva che il voto al Senato sul disegno di legge di modifica del Codice penale e del Codice di procedura penale sarebbe stato accidentato e difficile. Questo, visti i numeri ballerini della maggioranza che sostiene il governo e i contrasti esistenti all’interno del Partito democratico.
Ma quando si è capito che quel voto era divenuto addirittura pericoloso per la vita del governo ci ha pensato lo stesso Matteo Renzi, con una mossa spregiudicata delle sue, a congelare la partita, con l’idea di rimandarla a tempi politicamente migliori. Nel timore che nemmeno la fiducia parlamentare fosse sufficiente a far passare il provvedimento, col rischio dunque di vedere gravemente indebolito l’esecutivo alla vigilia del voto referendario, il premier si è abilmente trincerato dietro le dure parole di critica rivolte ai contenuti del Ddl dal capo dei magistrati, Pier Camillo Davigo, per sostenere che non si può legiferare contro la volontà di questi ultimi sulle questioni che riguardano la Giustizia.
Potrebbe sembrare un atto di rispetto istituzionale sostenuto da una buona dose di buon senso e pragmatismo. In realtà, oltre la paura di andare incontro ad una sconfitta parlamentare e quella, non meno concreta, di vedere l’ala più interventista e militante della magistratura schierarsi apertamente contro di lui nella campagna elettorale sulla riforma costituzionale, ci sono ragioni politiche molto serie che hanno probabilmente spinto Renzi a questa decisione. 
La prima (ovviamente inconfessabile in questa forma) è che il provvedimento che il Senato dovrebbe licenziare non è quella riforma della Giustizia – d’impianto liberale e garantista – che Renzi aveva auspicato e promesso poco dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, con l’idea di farne uno dei pilastri della sua azione riformatrice, e che aveva affidato come missione al ministro Orlando. 
Dal punto di vista di Renzi, dopo due anni nel corso dei quali Orlando sembra essersi arreso alle resistenze corporative dei magistrati sino ad adottare una strategia minimalista all’insegna di continui compromessi al ribasso, è come se la montagna avesse prodotto il proverbiale topolino. Non che in questo Ddl manchino norme che contrastano con quella cultura del giustizialismo nella quale Renzi, a costo di farsi dare del berlusconiano dai suoi stessi compagni di partito, non si è mai riconosciuto. Basti pensare, in particolare, a quella che prevede un limite temporale per il pubblico ministero per decidere, una volta concluse le indagini preliminari, se archiviare o procedere con l’azione penale. Una misura introdotta con l’obiettivo di limitare la durata dei procedimenti penali e di impedire, come oggi spesso accade, che la prolungata sottoposizione ad un processo penale diventi per l’imputato una sorta di pena anticipata. Altrettanto positive possono anche essere considerate quelle parti del Ddl dedicate al potenziamento degli effetti rieducativi dell’esecuzione penale.
Ma è evidente che una riforma di sistema della Giustizia – così come lo stesso ministro Orlando l’aveva presentata nei suoi famosi 12 punti nell’agosto del 2014 e che tra i suoi obiettivi principali contemplava la riforma del Csm – è un’altra cosa. Il problema è che, a parte le indecisioni di Orlando, Renzi in questo momento storico non ha la forza politica necessaria per impegnarsi in uno scontro come quelli che già l’hanno visto protagonista in altri momenti, ad esempio quando si è trattato di misurarsi a muso duro col sindacato ai tempi del Jobs Act. 
Quella forza che potrebbe venirgli da una vittoria netta al prossimo referendum. E proprio in questa scadenza va forse ricercata l’altra ragione politica (nemmeno questa confessabile apertis verbis) che ha spinto Renzi a non condividere la fretta con cui il ministro Orlando – anche ricorrendo alla fiducia – vorrebbe concludere l’iter in Senato del suo pacchetto di riforme. Non è un mistero che la minoranza interna del Pd punta sulla vittoria del «no» al referendum per scalzare Renzi dal governo e per sostituirlo, dando vita se necessario ad una nuova maggioranza parlamentare, con un proprio esponente. A Renzi la fretta di Orlando degli ultimi giorni, così come i suoi cambi d’opinione sul tema della fiducia (prima l’ha richiesta, poi ha suggerito di votare articolo per articolo), deve essere apparsa per nulla strategica, nell’imminenza di una campagna elettorale dove basta un passo falso – come appunto sarebbe una bocciatura parlamentare del governo in materia di giustizia – per giocarsi la vittoria al referendum sulla riforma della Costituzione e con essa, probabilmente, un’intera carriera politica.
La conclusione è che se la riforma della Giustizia (quella vera) può attendere, può attendere – sicuramente dopo il 4 dicembre – anche quella del Codice penale. E per chi abbia ancora a cuore le garanzie costituzionali, tutto sommato, non c’è da dolersene.
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