Renzi tentato: lasciare la segreteria

Renzi tentato: lasciare la segreteria
di Nino Bertoloni Meli
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Lunedì 12 Dicembre 2016, 07:53

ROMA Dimissioni anche da segretario del Pd. E' questo l'orientamento che è maturato nella testa di Matteo Renzi e che, se mantenuto, verrà annunciato all'assemblea nazionale di domenica prossima e non oggi in direzione, non è questa la sede. La tentazione c'è, e forte. E non tanto perché lo chiede a gran voce la minoranza interna, quanto perché ogni mossa dell'ormai ex premier va letta come la preparazione delle battaglie prossime venture volte alla ripartenza e alla riconquista del partito e, in prospettiva, del governo.

Non sarebbe un abbandono, un lasciare il campo come è avvenuto per palazzo Chigi, ma il modo ritenuto più forte per organizzare la ripartenza. Lui, uomo di partito sui generis, talmente sui generis da sembrare un marziano al Nazareno, intende muoversi a norma di statuto, che in materia prevede questo: il congresso anticipato si fa in caso di dimissioni del segretario, ma se l'assemblea nazionale non ne elegge uno nuovo, allora tocca al segretario dimissionario portare il partito al congresso. Al momento non si sa se Renzi sarà presente alla direzione dem convocata per oggi a mezzogiorno, se sarà di fuoco o meno dipende da lui, ma anche dagli altri. Nell'attesa, Orfini e Guerini sono preallertati a doversi preparare per fare la relazione.

I REGGENTI
Sembra di essere tornati al periodo dei reggenti dei Ds, quando toccò a Folena assurgere al ruolo di conducator in assenza di leader dimissionario. «Non mi faccio incastrare», è lo sfogo di Renzi consegnato a un intervento notturno su facebook e a colloqui che ha avuto un po' in giro. L'ormai ex premier ha preparato e chiuso gli scatoloni, ha riconsegnato la chiave del terzo piano di palazzo Chigi con gli alloggi del premier e se n'è andato a Pontassieve dove intende rimanerci per l'intera settimana. «Giusto lasciare la guida del governo e giusto puntare a elezioni al più presto, altrimenti, tra le altre cose, ci sarebbe il referendum della Cgil sul jobs act che porterebbe ulteriori lacerazioni», ha ricordato Matteo. «Ma io non mi faccio incastrare», ripete l'ormai ex premier che non interpreta la settimana di Pontassieve come gli ozi toscani, ma come una strategia per rimanere nell'agone politico.
I primi dati sono per lui confortanti: secondo un sondaggio, il 52 per cento di elettori e iscritti Pd lo vuole ancora alla testa del partito, mentre chiunque altro è staccatissimo (Enrico Rossi al 12,7 e Pierluigi Bersani all'11,8, che sembra un po' l'anticipazione di come si potrebbero concludere le primarie). «Riparto da capo, come è giusto che sia», ha scritto in nottata, ricordando che adesso non ha più «né lo stipendio di premier, né quello di parlamentare e neanche l'immunità e men che meno il vitalizio», torna semplice frate ma non spettatore. Tutt'altro. Ad altri ha annunciato la voglia di tornare a parlare «ai giovani», quelli che più lo hanno abbandonato al referendum, «girerò l'Italia per riprendere il contatto con i giovani». Quanto alle vicende interne, Renzi si dice pronto a «sfidare D'Alema o chi sceglierà di mettergli contro».

IL TIMING
Il timing è tracciato: il 18 assemblea a Milano che lancia il congresso, con segretario dimissionario o meno; primarie a marzo, possibilmente saltando o riducendo al minimo i passaggi solo interni (congressi di circoli, convenzioni di soli iscritti et similia), «il problema sarà parlare al Paese, non a noi stessi»: primarie di massa, dunque, per le quali Renzi conta di portare a votare «almeno due milioni di persone», «e questo certo non lo ottiene passando dalle correnti o dai capibastone che pensano solo alle questioni interne», avvertono i suoi. Al termine delle primarie, se verrà riconfermato segretario, a seconda anche della nuova legge elettorale che dovrebbe favorire raggruppamenti, Renzi prevede primarie di coalizione, soprattutto se Pisapia intenderà mantenere il progetto di un nuovo centrosinistra dove l'ex sindaco di Milano coprirebbe la sinistra.