Dibattiti inutili/ Quelle scelte sul referendum e il falso alibi della Resistenza

di Massimo Teodori
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Venerdì 27 Maggio 2016, 23:50 - Ultimo aggiornamento: 28 Maggio, 00:05
Ignorando le contese verbali che inondano i media, ci chiediamo se non sarebbe più saggio concentrarsi sugli urgenti problemi del momento piuttosto che sulle schermaglie astratte. Di fronte ad un arruffato dibattito sul referendum confermativo delle riforme costituzionali che si terrà solo il prossimo ottobre, preferiremmo discutere delle imminenti elezioni comunali e, in particolare, dei gravissimi problemi che affliggono la nostra Roma per cui non pare che vi siano molte proposte concrete. Così di tutto si parla meno che di quel che faranno o, meglio, di quel che saranno in grado di fare gli amministratori che dovremo votare il 5 e il 19 giugno.

Invece di occuparci dei problemi che riguardano la qualità delle nostre vite, in queste ore si straparla in grande anticipo del referendum autunnale. E non per capire quel che di buono propongono le riforme parlamentari e quali sono i limiti dei nuovi meccanismi istituzionali, ma per discettare di come avrebbe votato questo o quell’antenato politico e per accreditare le posizioni, più o meno leggendarie, assunte settant’anni fa da qualche personaggio famoso quando è stata scritta, con ben altra competenza, la carta costituzionale.

A questo punto c’è da chiedersi se noi italiani siamo davvero condannati al vizio della discussione per la discussione. Speriamo di no. Anche al giorno d’oggi sarebbe stato meglio affrontare nel merito le riforme al di fuori delle ideologizzazioni, magari una volta passate le elezioni comunali.

Infatti, avere portato a termine una riforma costituzionale di ampio respiro che implica la fine del bicameralismo perfetto è stata un’impresa importante. Ma non è stato altrettanto saggio avere trascurato il bilanciamento liberale dei poteri, e avere disegnato un pasticciato Senato di cui non si capiscono bene le funzioni e le procedure di nomina ed elezione.

Ma di tutto ciò non si discute nonostante l’anticipo eclatante del confronto politico che sembra puntare ad una specie di plebiscito sul presidente del Consiglio, mentre imperversano i ventriloqui che fanno parlare gli antenati comunisti e cattolici, da Togliatti a Ingrao, da Dossetti alla Jotti, senza alcun rispetto per il passato. La verità però è che lo scontro fra partigianerie nella macabra rassegna delle volontà post-mortem indica la sfiducia della classe politica in se stessa. Chi ha delle proposte valide e delle idee efficaci non ha bisogno di ricorrere al museo dei maggiori per legittimarsi.

In questo balletto di proclami merita un posto di primo piano la vicenda dell’Anpi, l’organizzazione che fu dei partigiani combattenti ed è ora composta, per oltre il 90 per cento, da persone che nulla hanno a che fare con quella storia. Questo episodio fatto di vuote dichiarazioni e di altrettanto inutili controdichiarazioni ha tuttavia un’origine profonda nella storia della Repubblica.

Si tratta dell’uso politico della Resistenza che da tempo ipoteca la nostra democrazia. Chi tocca la Resistenza è scomunicato dalle autoproclamate vestali di quel pezzo glorioso di storia patria, e chi ragiona sulle luci ed ombre della linea che va dalla Resistenza, necessariamente di sinistra, alla Costituzione, necessariamente scritta dalle grandi forze popolari, è indicato come un eretico di cui diffidare.

Dopo settant’anni da quella stagione decisiva per la libertà di tutto il Paese, sarebbe ora di proclamare senza reticenze che la Costituzione non è intoccabile e, anzi, che dovrebbe essere un compito comune di tutte le generazioni politiche di procedere all’aggiornamento degli istituti costituzionali rivelatisi inefficaci per il buon governo del Paese. Onorare la Resistenza senza pregiudizi non significa relegarla nel museo delle cere come purtroppo sembra che tanti, anche in questa occasione, vogliono fare.
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