Raggi, la lunga lista della gloria e quella corta dei risultati

di Mario Ajello
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Lunedì 2 Gennaio 2017, 09:42 - Ultimo aggiornamento: 09:47
Quel che è buono davvero diventa buono il doppio, se è contenuto in poco spazio. L'arte della prudenza politica consiglia di attenersi a questa regola. Ma il sindaco di Roma, la Raggi modello Stravirginia, ha deciso altrimenti.

Se l'alternativa, a livello di vita pubblica, è in questo momento storico tra chi urla e chi impiega toni tranquillizzanti la scelta degli italiani ragionevoli e davvero preoccupati del loro futuro non dovrebbe essere difficile da fare: meglio la prosaicità della demagogia. La diatriba sulle due Italie i fessi e i furbi, i puri e i disonesti, gli indefessi e i cialtroni è certamente abusata e stucchevole, ma ahimé spesso calzante. Ieri Grillo ci ha provato a farsi un suo controdiscorso ufficiale, con l'idea di dare corpo a quegli elettori che sono, spesso per seri motivi, arrabbiati e delusi. Persino pronti, in certe frange, a vedere tutto sfasciarsi pur di appagare il loro senso di rivalsa. Ma si è capito che si tratta di un pezzo di Paese che non ha ancora ricette utili per affrontare, con un minimo di realismo e senso pratico, i mali che denuncia con tanta veemenza. A meno di non considerare un orizzonte credibile quello della democrazia dell'autorappresentazione, dei cittadini che si affidano alla piattaforma digitale della Casaleggio & Associati per scardinare il potere e riappropriarsi della sovranità perduta. Il visionarismo non basta a nascondere la furbizia.

Si è capito quali debbano essere questi limiti quando Mattarella ha parlato, ad esempio, dell'odio divenuto uno strumento ordinario di lotta politica. La rete è una rivoluzione democratica che ha concesso a tutti libertà di espressione. Ma ormai è anche un mezzo attraverso il quale non solo si diffondono falsità deliberate e strumentali, ma si organizzano campagne di delegittimazione che minano la convivenza civile e rendono impossibile qualunque forma di dialogo tra avversari. Oltre una certa soglia, lo scontro politico per come ormai si articola anche in Italia rischia di essere pericolosamente distruttivo. Ricordarlo era doveroso.

Ci sono poi i limiti posti dal buon funzionamento delle istituzioni. Mattarella li ha ricordati quando ha spiegato riprendendo parole già dette al momento di far nascere il governo Gentiloni per quale ragione non ci si può recare a breve alle urne. L'idea che per rispettare la volontà popolare ci si debba lanciare, dopo quella per il referendum, in una nuova campagna elettorale, o si debba andare a votare con una legge elettorale quale che sia (incoerente come quella al momento vigente o al limite persino abborracciata) non tiene conto del danno che potrebbe venirne al buon funzionamento del sistema. Un politico responsabile dovrebbe calcolare non solo il proprio tornaconto immediato, ma anche l'interesse generale. E l'Italia, in questo momento, ha bisogno di un governo saldo non di aprire nuovi fronti di contesa e polemica.

Proprio alle divisioni e fratture che attraversano attualmente la nazione nord/sud, centro/periferia, garantiti/precari, vecchi/giovani Mattarella ha dedicato uno dei passaggi più interessanti del suo discorso. L'Italia, secondo il suo auspicio, deve tornare a pensarsi come una comunità. Una comunità di vita: dinamica e solidale. Se le parole hanno un senso, ciò significa che bisogna recuperare il senso storico, culturale, infine anche politico del proprio stare insieme, senza esclusivismi. Questi inviti all'unità, come molte delle cose che si dicono in circostanze tanto rituali, come appunto il saluto televisivo di fine anno, suonano talvolta come eccessivamente paternalistiche. Ma nel caso italiano colgono un problema reale. Servono valori comuni e una solida etica pubblica di cui dovrebbero farsi testimoni soprattutto coloro che occupano posizioni di responsabilità. Nel momento in cui appare facile sparare sulle élites, Mattarella ha preferito riconoscerne il ruolo e richiamarle al loro dovere.

Infine, il passaggio sui giovani. Parole particolarmente necessarie e opportune: un po' perché il tema è politicamente delicato, visto che sono loro i più penalizzati dalla crisi occupazionale, un po' perché c'era da rimediare ad alcune recenti cadute di stile e a qualche parola in libertà. Nel mondo globalizzato è un loro diritto muoversi e fare esperienza fuori dai confini nazionali. Ma dev'essere una scelta volontaria, non un obbligo dettato dall'assenza di opportunità e dalla mancanza di occasioni. Formare i giovani per poi lasciarli disperdere per il mondo è una forma di impoverimento sociale ed economico che ancora una volta rimanda alla difficoltà dell'Italia a pensarsi come persona collettiva, al di là dei destini individuali.

Con buona pace di Grillo, la realtà non è un punto di vista, ma la materia dura contro la quale si sono infranti nel corso della storia i predicatori d'ogni colore. Tra tante ansie, paure e promesse, avevamo (e abbiamo) bisogno di parole pacate e di un serio invito ad andare al cuore dei nostri problemi. E questo Mattarella, alla sua maniera garbata, ieri ha semplicemente fatto.

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