Pubblico impiego/ L’occasione mancata per cancellare un privilegio

di Oscar Giannino
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Mercoledì 2 Dicembre 2015, 08:34 - Ultimo aggiornamento: 08:35
È una questione di equità, fortemente sentita da milioni di italiani. Da un anno e mezzo a questa parte, quando si mise in moto il Jobs Act e fino ai suoi decreti attuativi tra fine 2014 e inizio 2015, tante volte su queste colonne abbiamo battuto e ribattuto su un tema: sarebbe stato meglio esplicitamente decidere che la nuova disciplina valesse per i dipendenti privati come per i pubblici. A cominciare dalla revisione dell’articolo 18, sulla rescissione dei contratti che abolisce la reintegra giudiziale tranne che per i licenziamenti illegittimi, e regola con indennità quelli economici e per giustificato motivo soggettivo.
Già la riforma si applica solo ai nuovi assunti, distinguendo le coorti di lavoratori per anagrafe. Dunque era l’occasione almeno di parificare tra pubblico e privato tutele e diritti, indennità e doveri. Il governo alla fine si decise per il no. Ma non lo scrisse in legge. La novità è che la Corte di Cassazione ha invece emanato una sentenza chiara, per la quale l’articolo 18 riformato si applica automaticamente anche ai dipendenti pubblici. Ma ecco che, dopo poche ore, arriva la contronovità: il ministro Madia annuncia che il governo metterà per iscritto nel Testo unico del pubblico impiego che no, la riforma non si applica ai dipendenti pubblici.
Perché il governo Renzi non si adegua a una limpida sentenza della Corte di Cassazione, e decide in poche ore di ribaltarla? Per capirlo, facciamo un passo indietro sul terreno del diritto.
La tesi affermata dalla Corte di Cassazione è secca. La Corte si è pronunciata sul licenziamento di un pubblico dipendente siciliano. Richiesta esplicitamente di pronunciarsi se l’articolo 18 riformato valga anche per i pubblici dipendenti o, nel dubbio, di sottoporre la questione alla Corte Costituzionale, la Cassazione ha ritenuto che la risposta fosse univoca, senza alcun bisogno di un giudizio di costituzionalità. Il Testo unico del pubblico impiego, il decreto legislativo 165 del 2001 con il quale è avvenuta la cosiddetta “privatizzazione” delle modalità contrattuali pubbliche, è inequivoco secondo la Cassazione: lo Statuto dei lavoratori, «con le sue successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti». «È innegabile - scrive la Corte - che il nuovo testo dell’articolo 18 riguardi anche gli statali, anche a prescindere dalle iniziative di armonizzazione previste dalla riforma».
Ma se questa è la sentenza, perché il governo dice il contrario? Bisogna rifarsi a numerose sentenze della Corte Costituzionale, in materia di equiparazione tra lavoro pubblico e privato.
Leggiamo alcuni brani della sentenza della Corte Costituzionale numero 146 del 2008. «Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Questa Corte in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001)». La pubblica amministrazione, infatti, «conserva pur sempre - anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato - una connotazione peculiare», essendo tenuta «al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa» (sentenza n. 82 del 2003). La Corte Costituzionale respinse con quella sentenza del 2008 la pretesa di estendere automaticamente un trattamento dal privato al pubblico, “in nome delle specificità irriducibili del lavoro pubblico per il quale rileva l’articolo 97 della Costituzione”. Numerose sentenze delle sezioni civili nonché riunite della Corte di Cassazione sono ispirate alla medesima linea, la perdurante “non omogeneità” del lavoro pubblico e privato.
Si direbbe dunque che la Cassazione è andata contro questa giurisprudenza, allora. Ma non è così. Se rileggete le sentenze della Corte Costituzionale, esse affermano «la possibilità» di una disciplina differenziata tra lavoro pubblico e privato. Cioè aprono alla possibilità che, se governo e parlamento ritengono, possano e debbano spiegare in legge su cosa e perché intendono differenziare il regime dei dipendenti pubblici da quelli privati. Ed eccoci al punto: né quando l’articolo 18 fu riformato dal ministro Fornero, né nella legge delega del Jobs Act, né nei suoi decreti attuativi relativi anche all’articolo 18, mai è stato scritto nei testi di legge che essi si riferivano ai soli lavoratori privati. Il motivo è presto detto: il Pd era diviso. C’era chi come il senatore Ichino ne sosteneva l’applicazione ai dipendenti pubblici, per le stesse ragioni addotte dalla Cassazione. E la stessa cosa, nella maggioranza, sostenengono Enrico Zanetti e i parlamentari di Scelta Civica. Al contrario molti altri nel Pd, come Damiano o Baretta, erano per la tesi contraria oltre alla maggior parte della minoranza del partito.
Ora che la Cassazione ha messo i puntini sulle i, per il governo si apriva un bivio. O adeguarsi senza battere ciglio, anche approfittando del fatto che molti degli oppositori Pd di allora sono intanto usciti dal partito. Oppure rinculare, e decidere di tutelare i lavoratori pubblici. E il governo sceglie questa seconda strada. Ritiene di avere già abbastanza problemi col rinnovo dei contratti pubblici – obbligati dalla Corte costituzionale, dopo 5 anni di blocco – e per il quale non ha soldi da stanziare (solo 300 milioni, che a mala pena coprono l’indennità di vacanza contrattuale). E dunque Renzi preferisce non aprire un altro fronte. I nuovi 60 mila assunti a ruolo nella scuola avrebbero iniziato a protestare subito.
Ma è un grande peccato. Un errore vero e grande. Non solo la reintegra giudiziale che resterà per i lavoratori pubblici tra gli italiani è incomprensibile e impopolare, a maggior ragione con i numerosi casi scandalosi che puntualmente avvengono anche a fronte di licenziamenti per macroscopiche mancanze disciplinari finché non si arriva al giudizio della Cassazione (anche se le norme disciplinari non prevedono di doverlo attendere). Inoltre, escludere dal lavoro pubblico il contratto a tutele crescenti è un errore anche perché consentirebbe di vagliare meglio la professionalità dei nuovi ingressi, concorso o no0n concorso vinto per accedere al ruolo. Ma soprattutto perché il fronte sindacale non è affatto unitario, nel difendere l’inapplicabilità ai lavoratori pubblici delle stesse regole del privato. Ieri a Radio24 il segretario della funzione pubblica Cisl Faverin si è detto pronto alla piena parificazione tra pubblico e privato: il che significa non solo articolo 18, ma anche basta con le sospensioni unilaterali da parte dei governi dei contratti. Non cogliere né l’umore profondo degli italiani, né disponibilità sindacali a ragionare in modo nuovo, è un segno che la carica di innovazione tende a esaurirsi.