Privilegi di casta/ L’immagine di un Paese irriformabile

di Oscar Giannino
5 Minuti di Lettura
Venerdì 26 Maggio 2017, 00:03
Il Tar del Lazio ha dunque di fatto azzerato le nomine ai 20 super-musei nazionali, per i quali il ministro Franceschini nel 2015 aveva profondamente innovato le procedure di selezione dei direttori. Accogliendo in due sentenze i ricorsi presentati da alcuni esclusi, di fatto le sentenze del Tar ne bocciano cinque su venti: ma le argomentazioni del giudice di primo grado amministrativo sull’illegittimità delle nomine investono per intero la riforma, tenacemente voluta dal governo Renzi. Tra i tanti possibili profili sotto cui considerare le decisioni del Tar, limitiamoci a tre soli. Uno giuridico. Uno politico. E infine uno che riguarda la cultura italiana nel mondo. 

Giuridicamente, chiunque legga la dettagliata minuziosità con cui il Tar smonta il bando con cui furono indicati i criteri della selezione pubblica, e la loro concreta attuazione da parte della commissione esaminatrice, trova un’ottima conferma di ciò che nella stessa sentenza viene ribadito. Il diritto del giudice amministrativo a esercitare un “sindacato forte”, nei confronti degli atti con cui legislatore e governo esercitano la loro facoltà a varare riforme e provvedimenti.

Evidentemente era ben chiaro al Tar che qui non siamo in presenza di una norma illegittima infilata di soppiatto in un testo che norma tutt’altro, come pure capita - talora scandalosamente - nella prassi normativa italiana. No, il governo e il ministro Franceschini avevano annunciato esplicitamente di voler compiere una svolta nell’apertura delle selezioni a personalità anche straniere, di riconosciuto valore nelle precedenti esperienze professionali. Esattamente come capita nel grande circuito internazionale dei maggiori musei mondiali: alla cui guida ci si contende i manager di maggior caratura senza discriminarli per passaporto.

Ma, in nome del “sindacato forte”, ecco che il Tar impugna la falce. E’ illegittimo il modo in cui la commissione ha pesato per i candidati i 100 punti a disposizione per valutarne titoli ed esperienza. E’ illegittimo aver fatto ricorso ad audizioni via Skype – eresia! – mentre occorrono audizioni fisiche aperte al pubblico e verbalizzate. E’ illegittimo non aver previsto una deroga esplicita all’articolo 38 del Testo Unico Pubblico impiego del 2001, che impedisce l’attribuzione di funzioni di dirigenza pubblica a chi non sia cittadino italiano. 

Ci penserà ora il Consiglio di Stato, a confermare o respingere il “sindacato forte” del Tar. Vedremo se entrare nel dettaglio delle valutazioni della commissione non sia discrezionalità del Tar, invece che vigilanza sul rispetto formale delle norme. Vedremo se sia illecito davvero, usare strumenti tecnologici che le imprese praticano da decenni per il loro reclutamento. E vedremo soprattutto se l’acquis comunitario della Corte Europea di Giustizia non preveda che le nomine alla testa di musei siano da far rientrare nella piena libertà di circolazione prevista dall’articolo 45 del Trattato Europeo, invece di assimilarle al vincolo nazionale che grava su ammiragli e magistrati. 

Ma l’impressione di fondo è una. A chiunque voglia riformare in profondità l’Italia, si oppone una selva di vincoli normativi irta di trappole. E’ per questo che, alla fine, i ministri fanno scrivere i provvedimenti direttamente ai magistrati amministrativi o contabili distaccati ai ministeri, col tempo divenuti gli unici depositari non dell’interpretazione del diritto, ma della sua stessa scrittura. E se il politico persiste nella sua volontà di discontinuità, magari sfidando apertamente la convinzioni della burocrazia di veder lese proprie prerogative, ecco che il politico stesso deve mettere in conto magari provvedimenti redatti ad arte per essere più facilmente impugnati. E annullati. E’ già successo in passato, per esempio sulle norme che estendevano ai magistrati lo stop degli aumenti stipendiali che valevano per tutta la PA. Provvedimento che venne naturalmente cassato dalla Corte Costituzionale, per come era stato scritto.

Ci sarà chi al contrario sostiene che la colpa è del governo. Proprio perché sapeva di sfidare ciò che la stragrande maggioranza dei dirigenti del MIBAC considerava diritto intangibile – “noi soli possiamo guidare i musei italiani” – avrebbe dovuto essere cento volte più scrupoloso nel bando. E tuttavia l’esperienza estera era esplicitamente citata nel bando, in coerenza a ciò che Franceschini dichiarava ogni giorno. Mentre questo colpo di falce a due anni di distanza azzera l’intera riforma, se non verrà riparato.

La considerazione politica è molto semplice. La resistenza alle nomine di stranieri era e rimane fortissima. Sorda alle migliori pratiche estere, del tutto coerenti alla scelta fatta da Franceschini. Cieca e indifferente alle migliori performance che in questi due anni sono state realizzate dai musei a cui sono stati adottati questi nuovi criteri, con incrementi anche a doppia cifra percentuale di visitatori e di risorse. E’ un’opposizione trasversale che politicamente unisce pezzi di destra e di sinistra: in nome ovviamente dell’italianità, e della bizzarra tesi per la quale chiamare stranieri di successo implichi una sorta di abdicazione da parte dello Stato. E’ la tesi per esempio del professor Settis e di Tomaso Montanari, che a ogni passo avanti per una miglior messa a reddito del patrimonio, che pubblico è e pubblico resta, temono invece che ciò configuri una resa all’immonda logica del profitto privato. 

È questa la politica che ieri ha brindato alle sentenze del Tar, insieme a tanti soprintendenti del MIBAC. Peccato che solo grazie alla svolta di due anni fa, siamo oggi al primo passo avanti per ottenere finalmente dei bilanci dei musei redatti con criteri finalmente omogenei, che consentano in ciascun caso di giudicare chi riesce di più e chi meno a procurarsi risorse aggiuntive rispetto ai meri trasferimenti pubblici.

La considerazione finale riguarda proprio l’immagine che dal Tar del Lazio rimbalza nel mondo. Chi mai potrà prendere sul serio d’ora in avanti una qualunque offerta italiana a gestire questa o quella eccellenza del nostro strepitoso patrimonio culturale? Un Paese irriformabile, conservatore delle privative a vantaggio solo dei propri funzionari pubblici, difensore dell’autarchia, con un giudice dietro l’angolo pronto a sindacare ogni giudizio di selezione. Una nazione che si chiude in un recinto, e lo spaccia per legge e diritto. In cui gli unici a poterlo emendare sono i depositari dei suoi arcani, la legione sacra dei magistrati. Un’Italia immobile. Che meraviglia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA