Primi passi avanti/ Tre ragioni per fermare le porte girevoli toghe-politica

di Carlo Nordio
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Martedì 18 Luglio 2017, 00:06
Il vicepresidente del Csm, Legnini, e il Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Albamonte, in due interviste in successione sul Messaggero hanno enunciato un principio sacrosanto: che il magistrato entrato in politica non può più rientrare nei ranghi e reindossare la toga. È l’epilogo di un percorso lungo e sofferto: ma è un epilogo da apprezzare, ma purtroppo insufficiente e tardivo. Tardivo, perché la credibilità della magistratura, anche a causa di questo sfrenato andirivieni è ormai scesa a precipizio. E insufficiente perché non affronta in radice il problema: che un magistrato in servizio ( e secondo noi anche dopo) non dovrebbe mai candidarsi a cariche elettive, e questo per tre motivi.

Primo. L’Italia ha una storia di conflittualità quasi esasperata tra toghe e politica. Le ragioni sono molte e risalgono al 1992 quando si è passati da una repubblica partitica a una repubblica giudiziaria. Intendiamoci: non è stata la magistratura a eliminare una classe dirigente che si era esaurita nell’incapacità e screditata nella corruzione: i processi ne hanno solo celebrato i funerali. Ma da quel momento le toghe hanno colmato - come si dice -“oggettivamente”, un vuoto di potere, che non hanno più mollato. L’ingresso in campo di Berlusconi, con la sua impallinatura attraverso un avviso di garanzia notificato a mezzo stampa, ha gettato benzina sul fuoco. 
E da allora, con alti e bassi, le indagini continuano a condizionare Parlamento, Regioni e Comuni, dove nessuno firma più nulla per paura di finire nel registro degli indagati. In questa infernale confusione, che ha frantumato il principio della divisione dei poteri, consentire a un magistrato, che magari ha acquisito notorietà e prestigio attraverso inchieste sui personaggi politici, di sostituirsi a questi ultimi, significa dare il colpo di grazia alle nostre già vacillanti istituzioni. 

Secondo. La candidatura di un magistrato – a maggior ragione se ha raggiunto la notorietà di cui sopra – lo esporrebbe a una sorta di rilettura di tutta la sua precedente condotta professionale. Naturalmente nessuno pensa - e ci mancherebbe altro - che un giudice abbia strumentalizzato, cioè prostituito, la sua funzione, per prepararsi un “buen retiro” in parlamento o al governo. Nondimeno la sola eventualità che qualche anima cattiva possa insinuare questo perfido sospetto dovrebbe suggerire di eliminarne il pericolo. 
Terzo. Il magistrato che sfrutti - naturalmente con le più nobili intenzioni - tale notorietà per candidarsi, altera il principio della concorrenza leale, o quantomeno della parità delle condizioni di partenza. Decolla avvantaggiato solo per aver fatto, a suo tempo, il proprio dovere. Si dirà che anche un cantante, un calciatore o un artista possono godere di questa situazione di favore.

È vero. Ma nessuno di loro ha mai inquisito o incatenato un concorrente. 
Certo, si può replicare che alcuni magistrati possono fare, o aver fatto, politica in modo anche più subdolo, orientando o strumentalizzando maliziosamente le proprie inchieste senza nemmeno esporsi nell’agone elettorale. Ma a parte il fatto che addurre un inconveniente non significa risolvere il problema, resta la circostanza che l’ufficializzazione della candidatura non farebbe che avvalorare gli eventuali sospetti di una precorsa e sacrilega baratteria di partito. In ogni caso questo pericolo mortale andrebbe affrontato con riforme ben più incisive di quella timidamente ora prospettata (che pur rappresenta un passo avanti): dalla separazione delle carriere, alla trasparenza dell’azione penale, alla gestione delle intercettazioni, via via fino al funzionamento dello stesso Csm. Ma questo, direbbe De Gaulle, è un vasto programma.
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