Il precedente italiano/ Effetto Trump che cosa resta dei partiti (non solo in Usa)

di Giuliano da Empoli
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Giovedì 26 Maggio 2016, 00:22
È tuttora assai improbabile che Donald Trump diventi il prossimo presidente degli Stati Uniti. Comunque vadano le cose, però, la sua irruzione sulla scena ha già prodotto un effetto importante sul sistema politico americano: il vecchio partito repubblicano non esiste più. Quella formazione venerabile - il Grand Old Party, come lo chiamavano - nella quale gli onori e le responsabilità si trasmettevano di padre in figlio e le dispute si regolavano in famiglia, senza intaccare la facciata di rispettabilità che, sempre, andava proiettata all’esterno, è volata in pezzi. Sta in questo, forse, l’analogia più profonda - per quanto meno visibile - tra Donald Trump e Silvio Berlusconi. Chiaro, c’è il folklore: i miliardi e le battute, il piglio dell’imprenditore “ghe pensi mi” e le ansie tricologiche. E su tutto, quell’atteggiamento da uomo della provvidenza che accomuna i due personaggi, come notava Romano Prodi su queste pagine. Ma al di là dello stile, contano le strutture. All’inizio degli anni Novanta, Silvio Berlusconi ha fatto irruzione su una scena politica in fase di avanzata decomposizione, nella quale l’offerta politica (i partiti esistenti) non corrispondeva più alla domanda dell’elettorato. Dando vita ad una nuova formazione, Forza Italia - e aggregandone due, la Lega e Alleanza Nazionale - precedentemente incompatibili, Berlusconi ha ristrutturato il sistema politico italiano, adeguandolo alla domanda.

Si possono giudicare come si vogliono gli esiti di quell’operazione (e chi scrive non ne dà certo un giudizio positivo). Ma è indubbio che abbia spazzato via strutture che non avevano più una ragion d’essere, nell’Italia dei primi anni Novanta, per sostituirle con un contenitore assai più capace di intercettare le aspirazioni e le paure di un pezzo del Paese. Una cosa simile sta ora accadendo negli Stati Uniti. Certo, lì il bipartitismo è praticamente iscritto nella costituzione. Motivo per il quale, anziché creare un nuovo partito, Trump ha semplicemente preso in ostaggio le primarie dei repubblicani. Ma l’effetto è lo stesso: un marziano è sbarcato all’improvviso, rivelando la fragilità di un’intera classe dirigente. Gli Stati Uniti sono un Paese nel quale il 90% della popolazione non ha visto crescere i propri redditi negli ultimi quindici anni. E nel quale per la prima volta nella storia, l’aspettativa di vita dei maschi bianchi della working class ha iniziato a diminuire.

Accanto all’America vincente di Silicon Valley e delle città creative, dei ceti emergenti e della società multietnica che vota prevalentemente democrat, c’è un Paese impaurito e risentito, fatto di campagne e di piccole città, di operai (sempre meno) e di impiegati dei servizi a basso reddito (sempre di più) che si sentono abbandonati. Non solo le loro condizioni di vita peggiorano, ma i media e le élites gli dicono pure che è giusto così: che il loro tempo è passato, perché il futuro è fatto di ologrammi globalizzati e inafferrabili. A questo elettorato i sonnambuli del vecchio partito repubblicano hanno cercato di propinare il terzo Bush consecutivo. Uno che non aveva neppure tanta voglia di farlo, il presidente, ma che vabbè tutto sommato un’investitura non poteva rifiutarla. Rispetto a questo establishment lunare, Trump ha rappresentato una sveglia brutale. E basta guardare la curva dell’audience delle trasmissioni e dei dibattiti ai quali partecipa per capire che lui, con quell’America bianca e perdente e impaurita ci parla.

Fosse anche solo per accarezzare i suoi istinti più retrivi e brutali.
In pochi mesi di campagna, Trump ha sovvertito rituali, procedure e abitudini consolidati da decenni, se non da secoli. Ora, il tema è solo quello di capire fin dove arriverà quest’opera di decostruzione radicale. I democratici partono chiaramente avvantaggiati nella corsa alla Casa Bianca. La loro candidata non ha offeso a morte i due terzi dell’elettorato americano (le donne, i neri, i musulmani, gli ispanici…) come ha fatto Trump nel corso della sua campagna. Si trovano però nella scomoda posizione di incarnare l’establishment in una fase nella quale l’America è attraversata da una fortissima ondata di risentimento nei confronti delle sue classi dirigenti. In un clima del genere, i numeri dei sondaggi e perfino le statistiche dei demografi, lasciano il tempo che trovano. Bisognerà aspettare fino a novembre per capire se l’effetto Trump resterà confinato tra i repubblicani o se travolgerà anche il partito democratico e le istituzioni americane così come le abbiamo conosciute fino ad oggi.
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