Politica e tribunali/ Cancellare l’effetto avviso e stop all’alibi dell’onestà

di Carlo Nordio
3 Minuti di Lettura
Lunedì 13 Marzo 2017, 00:11
Su un punto le conclusioni della convention del Lingotto sono chiare: la giustizia non può e non deve essere strumento di lotta politica. Non è un’affermazione nuova, ma è un’affermazione chiara e solenne. Per l’autorevolezza di chi l’ha enunciata, e la vastità del consenso ottenuto, possiamo ritenere, o almeno sperare, che sia ormai un patrimonio acquisito del Partito Democratico. Tenuto conto che il centrodestra ne ha sempre fatto una questione di principio, e che il leader in pectore della nuova sinistra, Giuliano Pisapia, ne ha sempre sostenuto la validità, potremmo auspicare che, almeno in questo ambito, si trovino, nel prossimo futuro, fruttuose convergenze.

I punti potrebbero essere i seguenti. Primo. Posto che l’informazione di garanzia è un atto dovuto, finalizzato a tutelare le prerogative difensive del destinatario, esso è politicamente neutro, e non può compromettere in alcun modo né le funzioni presenti né le aspirazioni future di chi lo riceve. Tutti i passaggi successivi di un eventuale procedimento penale, dalla richiesta di rinvio a giudizio fino alla sentenza definitiva, dovrebbero essere valutati caso per caso, tenendo presente la presunzione di innocenza e i tempi della nostra giustizia penale. 

La pretesa di un “passo indietro” in attesa del chiarimento finale – futuro e incerto - non può costituire un espediente per liberarsi di un avversario. 

Secondo. La statistica dimostra che le probabilità di essere indagati aumentano in modo esponenziale per chi esercita cariche pubbliche. I maligni possono leggervi una tendenziale attitudine della magistratura a condizionare l’attività politica o amministrativa dello Stato. In realtà si tratta solo della sciagurata combinazione di leggi contraddittorie, formulate in modo tecnicamente imperfetto, con l’obbligatorietà dell’azione penale. I reati di abuso d’ufficio e di traffico di influenze, ad esempio, sono così generici e onnicomprensivi da legittimare un’indagine preliminare contro qualsiasi sindaco, assessore o ministro.

Quindi, o si smette di far politica o ci si rassegna a questo inevitabile rischio giudiziario. Ma almeno finiamola con la sua strumentalizzazione. Terzo. Il presenzialismo elettorale di magistrati che hanno acquisito notorietà per aver condotto indagini nei confronti di politici ha ormai raggiunto livelli incompatibili con il principio della separazione dei poteri. Si aggiunga che questi signori, attualmente in aspettativa, potrebbero un giorno reindossare la toga. Questo vulnera il buon senso, più ancora che l’immagine della stessa giustizia. La loro risposta è che la legge lo consente. Verissimo. Allora si cambi la legge. Ultimo. L’effetto più perverso di questa selezione per via giudiziaria, consiste nella convinzione che l’onestà sia il requisito essenziale per accedere alle cariche pubbliche. No. L’onestà è necessaria, ma non è affatto sufficiente.

Un amministratore efficiente e capace, ancorchè di costumi chiacchierati, può perseguire l’interesse pubblico meglio di un onestissimo cretino dissipatore.
Non è una conclusione simpatica, ma è certamente realistica. Se l’onesta – vera o autocertificata - costituisse titolo esclusivo a governare - diventerebbe un alibi per tutti gli inetti con la fedina penale immacolata. E questo sarebbe il più colossale degli errori, perchè la politica, a differenza della morale, non guarda alle buone intenzioni della coscienza, ma ai risultati utili per la collettività. 



 
© RIPRODUZIONE RISERVATA