Il piano segreto/ La posta in gioco è cambiare le regole europee

di Osvaldo De Paolini
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- Ultimo aggiornamento: 20 Gennaio, 00:05
Il colpo di rasoio sferrato del tedesco Manfred Weber nella discussione sulle politiche europee («Ciò che sta facendo Matteo Renzi mette a repentaglio l’unità dell’Europa») è il segnale che la tensione si sta alzando ai livelli più alti. Non è più Jean-Claude Juncker, ribattezzato «l’uomo della Merkel», a rappresentare lo sconcerto per l’intemerata del premier italiano, ma attraverso Weber è la Merkel stessa che prende parola. Evidentemente a Berlino cominciano a capire che lo scopo del governo italiano non è più solo ottenere uno zero virgola di deficit aggiuntivo, ma vista l’ampiezza dell’offensiva appare chiaro che l’obiettivo è più ambizioso. In altre parole, riportati entro binari accettabili i conti e convinte le grandi istituzioni terze che il processo di riforme è avviato, per Renzi è giunto il momento di sedere al tavolo di quelli che a Bruxelles contano davvero. Non tanto per poter rivendicare il diritto a una flessibilità maggiore, quanto per modificare le regole che stanno inutilmente penalizzando l’economia europea. 

 

E poiché Berlino mai avrebbe pensato di dover condividere con alcuno le grandi decisioni sui destini d’Europa, ecco spiegata la reazione scomposta di questi giorni alle sacrosante istanze del governo italiano.

Chiunque può capire che l’Europa è un’opportunità fatta di costi e benefici, ma se i primi superano i secondi vuol dire che è una strada che non vale percorrere. E dunque, se è comprensibile che di fronte al baratro un Paese accetti di sottoscrivere patti odiosi come il fiscal compact imposto dalla Germania, si resta tuttora basiti al ricordo della facilità con la quale nel 2012 l’allora premier Mario Monti vi aderì, pur sconsigliato per i rischi che l’Italia avrebbe corso con un Pil in caduta e un debito difficile. Pensare che fu proprio Monti a mettere in guardia un incuriosito Obama sull’eccesso di rigore dei tedeschi «perché per loro l’economia è ancora un ramo della filosofia morale, e dunque la crescita non è il risultato della domanda aggregata keynesiana, bensì il premio a comportamenti virtuosi». Cioè a dire: le regole vanno rispettate sempre, anche quando c’è il rischio di schiantarsi.

L’INFLAZIONE VILIPESA
Naturalmente tutto il mondo è paese, e la regola è tale perché prevede l’eccezione. Persino nella rigorosa Germania. Troppo facile maramaldeggiare sul dieselgate che vede il campione dell’industria tedesca, la Volkswagen, tuttora immerso in una vicenda non proprio commendevole. Ciò che lascia perplessi è invece come possa Berlino sollecitare quotidianamente il rispetto delle regole quando la Bundesbank fa di tutto per sabotare la Bce di Mario Draghi che ha quale missione prima di riportare l’inflazione Ue vicina al 2%. Ma non dovrebbe essere proprio questa la regola aurea da far rispettare - e da rispettare - visto che tra l’altro renderebbe la vita più facile a un gran numero di Paesi aderenti all’Unione, dove nessuno è esente da debiti? Tra l’altro, vero è che il debito italiano è alto, ma se lo mediamo con altre componenti della ricchezza-Paese si scopre che è tra i meno rischiosi.
E qui si introduce il tema dell’attacco borsistico alle banche italiane, che solo apparentemente non ha legami con lo scontro politico in corso tra Roma e Bruxelles. Sarà anche pura coincidenza, è però forte il sospetto che vi sia una qualche connessione tra il completamento della gigantesca manovra di risanamento con soldi pubblici del sistema bancario tedesco e l’introduzione nel 2013 del cosiddetto burden sharing, cioè la regola per la quale non sono più consentiti aiuti di Stato nel salvataggio delle banche (oggi evoluto nel bail-in) e che ha indotto il governo Renzi a varare - con le conseguenze che abbiamo visto - il salvataggio delle ormai famose quattro banche. 

Ora, può essere che l’allora governo Monti peccò di superbia quando, nel 2012, si presentò anche all’Italia la possibilità di irrobustire il sistema bancario con modalità non punitive per i risparmiatori. E tuttavia, il fatto che oggi l’Italia sia il Paese europeo in assoluto meno impegnato in una banca (si veda nel grafico il confronto con la Germania e i Paesi satelliti) dovrebbe indurre Bruxelles a più miti consigli in tema di bad bank italiana. Non foss’altro perchè se dovesse andare in tilt il sistema bancario italiano a causa dell’eccesso di sofferenze - non che il rischio sia alle porte, ma un po’ di prudenza non guasterebbe visti i precedenti - fatalmente il contagio si estenderebbe al sistema bancario europeo. E’ questo che si vuole?

C’è chi si è detto stupito del fatto che solo in Italia la semplice richiesta di informazioni sui crediti deteriorati da parte della Bce ha provocato un mezzo cataclisma in Borsa. Di qui è discesa la convinzione che il sistema italiano sia più debole di quanto non si voglia far credere. Falsa impressione: il punto è che le sofferenze sono un tema sensibile solo per le banche italiane perché prodotte da un sistema che da sempre privilegia il finanziamento bancario rispetto al capitale di rischio. Ciò che invece non accade in molti altri paesi europei, dove le banche che traggono i maggiori utili da attività finanziarie più propriamente speculative. Non deve perciò sorprendere se in un momento particolarmente delicato per i mercati, reduci da un inizio d’anno tribolato per più motivi, la sola idea che la Vigilanza possa meditare di introdurre un giro di vite nella valutazione delle sofferenze - e innescare così una nuova necessità di capitale per gli istituti - possa provocare lo sconquasso borsistico di questi giorni. 

LE TRAPPOLE DELL’EBA
Del resto, in questi ultimi tempi sia l’Eba sia la Vigilanza Unica non hanno mancato di dimostrare quanta ”stima” hanno per le banche italiane. Di più. Stando ad alcune comunicazioni già in circolazione, gli stress test che l’Eba sta mettendo a punto per il 2016 saranno quasi certamente basati sul credito come rischio principale. E questo è inaccettabile, perché vorrebbe dire colpire principalmente le banche italiane. Sia chiaro, è giusto sottoporre i crediti a stress; ma perché non usare altrettanto rigore nel caso dei derivati che sostano nei bilanci delle banche tedesche fin dai tempi di Lehman Brothers perché sul mercato nessuno li vuole? Non sono forse più rischiosi delle sofferenze italiane, peraltro largamente coperte da garanzie reali? Ecco dunque un’altra regola che va cambiata. Piaccia o no alla signora Merkel.

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