La nuova Pa, un passaggio più strategico del Jobs Act, ma incompleto

di Oscar Giannino
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Martedì 4 Agosto 2015, 23:51 - Ultimo aggiornamento: 5 Agosto, 00:32
L’approvazione definitiva della legge delega sulla riforma della Pubblica amministrazione è sicuramente la cosa più importante condotta in porto sin qui dal governo Renzi. Vista la marea di temi fondamentali sui quali dovranno intervenire le decine e decine di decreti attuativi previsti, si può dire senza rischio di smentite che vale più del Jobs Act e della riforma dell’articolo 18. Ora la vera questione diventa appunto la sua attuazione, e il governo dovrà stupirci.

Non dimenticatevi che l’ultima riforma organica della PA, quella Bassanini del 1996, non aveva tale ampiezza di materie toccate, eppure dovette aspettare 5-6 anni prima che la sua attuazione diventasse reale. Il rischio è ancor più forte questa volta, perché su ogni decreto delegato si ripeteranno per dieci le proteste e le richieste di diluizione già viste in Parlamento, esaminando la delega. E non è un caso che all’inizio stesso del processo di riforma il governo abbia preferito mettere il più degli ingredienti nella legge delega, visto quanto dovette combattere con magistrati e sindacati nel testo del decreto legge approvato ad agosto 2014, che conteneva solo l’antipasto della riforma che oggi il governo può attuare.

Praticamente, c’è ora l’occasione formale per cambiare decine e decine di storici ingessamenti della PA. Consideriamone solo quattro tra i più importanti, e identifichiamo i rischi che il governo dovrà sventare. Partiamo da dove spesso la PA manca di incisività e risultati verificati: la dirigenza. Il ruolo unico dei dirigenti – diplomatici, magistrati e prefetti sono riusciti a ottenere l’esenzione in parlamento, naturalmente – con accesso per concorso più un altro esame di valutazione, è una grande scommessa. Perché introduce incarichi a tempo di 4 anni, e prescrive che su di essi si venga valutati: fino al demansionamento e al licenziamento, se necessario. Dovrebbe essere la fine dei premi di produttività spalmati tra tutti a prescindere dai risultati, e l’inizio di una PA la cui efficienza si misura secondo risultati affidati ex ante, e verificabili ex post.



Purché il governo non perda per strada la voglia di farlo: perché nella riforma della scuola alla fine ha rivinto lo scatto d’anzianità sul premio al merito.

Secondo esempio: le sanzioni disciplinari ai pubblici dipendenti. Anche qui un danno è fatto, visto che nel Jobs Act si è deciso di non estendere la riforma dell’articolo 18 al lavoro pubblico. Ma in ogni caso la legge delega sulla PA parla chiaro: termini perentori entro i quali le sanzioni devono essere irrogate, e sino al licenziamento. Con passaggio all’Inps dei controlli rapidi sull’assenteismo per malattia. In altre parole: a seconda di come scrive la delega e se non si fa tirare per la giacchetta dai sindacati, il governo ha ora gli estremi per impedire con nuove norme che si ripetano a oltranza vicende come quella dell’Atac e dello sciopero bianco a Roma senza sanzioni immediate. Sarà il caso di chiarire meglio, invece, la contorta delega in materia di responsabilità erariale: considerare responsabili dei danni allo Stato solo i dirigenti pubblici, e non i politici alla testa delle amministrazioni, è un’ipocrisia bella e buona.

Terzo esempio: la cessione e riduzione delle partecipate locali. Come si è visto l’esito è stato nullo, del puro appello alla buona volontà in materia, inserito senza sanzioni né norme cogenti nella legge di stabilità 2015: non ha prodotto alcuna reale decisione di Comuni e Regioni sulle oltre 12 mila società partecipate e controllate. Ora la delega consente invece al governo di scrivere nome generali per il riordino, la cessione e la liquidazione di tutte quelle in perdita o che non hanno ragione di esistere. Qui le resistenze frontali saranno ovviamente dell’Anci e della Conferenza Stato-Regioni. Ma o la va o la spacca, è l’ultima spiaggia per affrontare un parco di orrori che è quasi sempre poltronificio per partiti e clienti dei partiti.

Quarto esempio: il riordino periferico dello Stato, e di come dialoga al suo interno. È bastato parlare dei forestali, per far scatenare le resistenze corporative.



E sulla storica battaglia per sopprimere il Pra riunificando tutto nella Motorizzazione Civile, l’Aci che gestisce il primo ha perso una battaglia, ma non la guerra. Al contrario a partire dalle prefetture, dai servizi d’emergenza del 112 e da norme chiare tra protezione civile e competenze di Regioni e Comuni, il governo può oggi cancellare molti degli inutili doppioni che dilapidano risorse e sono solo scuse per scaricabarile di fronte ai guai. Esattamente come può farlo per consegnare al passato le interminabili conferenze dei servizi in materia di opere pubbliche, interminabili sedi di veti contrapposti, riducendole invece a tempi certi e rapidi attraverso il principio del silenzio-assenso: contro il quale già son pronti a scagliarsi sia ambientalisti in buona fede, sia furbastri specialisti nel lucrare attraverso le mille modifiche progettuali in corso d’opera.

Non resta che sperare nella buona lena dei decreti attuativi. Perché la PA italiana è troppe volte diversa da quel che sembra. Basti un esempio: tutti dicono che nella PA si entra per concorso, e per questo non si applica la riforma dell’articolo 18. Nella realtà, l’assunzione per concorso riguarda ormai circa il 30% dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici italiani oggi in forza: il resto è venuto da sanatorie, deroghe alle norme, o da idoneità che sono cosa ben diversa dall’aver vinto un concorso. Tra parentesi, gli “idonei” non vincitori sono ancora la bellezza di 147 mila, in attesa di un’assunzione che lo Stato non è tenuto a far scattare. Che cosa prevederà il governo, ora che deve metter mano a nuovi contratti pubblici dopo la sentenza della Corte Costituzionale: li assume tutti come i precari della scuola, e allora addio ai nuovi concorsi?

Ecco, la via dei decreti attuativi sarà costellata di alternative di questo genere: se far prevalere nuovi criteri per una PA che fa punto a capo, o accontentarsi di averli scritti, e continuare nella realtà a fare tutto il contrario.