Mani libere dopo il voto/ Coalizioni “crisalide”, la sorpresa nell’urna

di Marco Gervasoni
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Martedì 30 Gennaio 2018, 00:13 - Ultimo aggiornamento: 00:15
Da sempre la politica è teatro. Tutti gli attori recitano una parte, secondo un copione ben definito che potrà però cambiare alla successiva rappresentazione. Da noi la politica ha poi spesso assunto le forme del teatro barocco, dove si allude a un tema per voler invece significare il suo opposto (siamo il Paese di Pirandello e di Sciascia) oppure quelle della Commedia dell’Arte. 

Nella prima Repubblica, ad esempio, comunisti e democristiani si lanciavano violentissimi strali gli uni contro gli altri, sapendo benissimo che, in forme più o meno nascoste, avrebbero poi dovuto collaborare tra loro. Anche per questo la Seconda Repubblica nacque all’insegna del bipolarismo, destra vs sinistra, o me o lui; niente più al «teatrino della politica» come lo chiamava Berlusconi. Se non nel teatrino, almeno nel teatro siamo invece ricaduti appieno, e lo vediamo ogni giorno di questa campagna elettorale formalmente neppure iniziata. In teoria il panorama dovrebbe essere cristallino: due coalizioni, una di centro-destra e una di centro-sinistra, più due forze, 5 Stelle e Liberi e uguali, a fare da cavaliere solo. 
Tutti quindi dovrebbero muoversi avendo in mente lo schema di gioco maggioritario, come si fa dal 1994. Sennonché la volontà maggioritaria è subito offuscata da quella proporzionale perché la legge elettorale è un Giano Bifronte.

Conquistare i collegi maggioritari è fondamentale per tutti ma la maggior parte dei deputati saranno eletti nel proporzionale. Da qui l’apparente schizofrenia, la tendenza a enfatizzare le distanze dall’alleato di coalizione, come fanno vedere quotidianamente Berlusconi e Salvini. 
I sondaggi inoltre restituiscono un parlamento appeso, come si dice nel Regno Unito: senza maggioranza possibile. Da qui la consapevolezza, comune a tutti, di far parte di una coalizione che, dopo il 5 marzo, potrebbe non esistere più. Ecco quindi i protagonisti inviarsi messaggi a doppia lettura, che indicano una direzione ma sembrano alludere a un’altra. Ecco Berlusconi che apprezza Gentiloni e attacca meno il Pd dei 5 Stelle, e Gentiloni che, a sua volta, esclude un governo con Salvini, ma reputa il Cavaliere lontano dal populismo. 
Il capo della Lega, per non recitare la parte del «secondo Zanni», la maschera bergamasca del servo sciocco, lancia a sua volta segnali ai 5 Stelle. I quali, per apparente amor di chiarezza, affermano di voler dialogare con tutti. Solo che, dopo gli occhi dolci alla sinistra di Grasso, negli ultimi giorni Di Maio sembra voler dialogare con la Lega; e così finisce per far fibrillare entrambi i campi, come un consumato politicien. 
Per entrare nel mondo dell’entomologia, è come se ci trovassimo di fronte a coalizioni crisalide, da cui nasceranno entità molto diverse, le farfalle. Questo spiega il carattere particolarmente irrealistico delle promesse. Sia chiaro, le campagne elettorali non sono mai né un pranzo di gala né fiere del realismo e della concretezza. 

Gli spettatori (pardon, gli elettori) sanno che i candidati devono sparare fuori d’artificio e ne fanno la tara. In questo caso però il livello delle promesse e la loro difficile sostenibilità appare davvero troppo elevato. 
Ma chi le propone non è impazzito. Sa benissimo che con molta probabilità a partire dal 5 marzo lo scenario diventerà irriconoscibile: e sarà legittimato a dire di non poter mantenere quanto pattuito perché gli imprevisti e nuovi alleati di governo lo impediranno. Questo vale anche per i 5 Stelle: semmai riuscissero ad entrare in un governo, non sarebbero soli (con la Lega? con Liberi e uguali?). 
E dei venti punti di Di Maio non ne resterebbe neppure uno. Rimane solo da capire: gli elettori-spettatori sono contenti di questo spettacolo? A giudicare dallo scarso entusiasmo degli italiani all’idea di votare, non ne saremmo così convinti. E in un clima storico di «riflusso» delle democrazie liberali, le conseguenze possono essere imprevedibili. 
 
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