Il caso De Magistris, la giravolta anti toghe del sindaco giustizialista

di Alessandro Campi
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Venerdì 26 Settembre 2014, 22:40 - Ultimo aggiornamento: 27 Settembre, 00:03
La condanna che il Tribunale di Roma ha inflitto a Luigi de Magistris (un anno e tre mesi per abuso d’ufficio) non poteva che diventare un caso politico-mediatico. Innanzitutto, per la personalità stessa del condannato: un ex-procuratore la cui carriera politica (è diventato sindaco di Napoli senza praticamente avere alcun partito alle spalle) è stata interamente favorita, come già era successo su grande scala con Antonio Di Pietro, dalla popolarità che gli hanno dato le sue inchieste. Solitario quando vestiva la toga, lo è stato anche quando si è lanciato nell’agone politico, sbancando destra e sinistra grazie alla sua promessa di voler continuare a combattere la corruzione e il malaffare.

Trovarlo prima nei panni dell’imputato, poi in quelli del condannato, proprio per un reato commesso nell’esercizio della sua antica attività professionale, fa in effetti una certa impressione. C’è poi da considerare il cortocircuito politico-linguistico che questa vicenda sta producendo. Colpisce vedere un ex giustizialista trasformarsi all’improvviso in un garantista. Sentire un ex magistrato prendersela con il formalismo giuridico dei giudici e accusarli di perseguire un disegno politico, avendo a suo tempo fatto cadere persino un governo (quello guidato da Romano Prodi) con le proprie indagini. Leggere che si considera la vittima di un intollerabile abuso legale essendo appena stato sanzionato dai suoi ex-colleghi per aver commesso dei gravi abusi procedurali.

Sentir dire da un esponente politico, quale è oggi de Magistris, che tra i magistrati «ci sono anche fior di delinquenti che non applicano la legge nel rispetto della Costituzione», quando da magistrato probabilmente pensava cose altrettanto terribili dei politici sui quali indagava.

Ma ciò che soprattutto lascia pensare è la sua determinazione a non volersi dimettere, con argomentazioni analoghe a quelle di certi politici finiti sotto inchiesta («Sono i giudici a doversi dimettere», ha detto al colmo dell’ira). Ieri sono intervenuti in molti – dal presidente del Senato Grasso ai rappresentanti del M5S, dagli esponenti del Pd a quelli di Forza Italia – per sollecitare nei suoi confronti l’applicazione della Legge Severino e per invitarlo ad un passo indietro.

Le agenzie di stampa hanno battuto ieri la seguente dichiarazione di de Magistris, talmente polemica che a stigmatizzarla è intervenuta persino l'Anm: «Non ci faremo piegare da questa melassa putrida che mette insieme pezzi di Stato che non hanno il coraggio di dirti in faccia che ti vogliono abbattere, ma cercano sempre dietro le quinte di fregarti con procedimenti giuridici». Vi ricorda qualcuno? Sembra uno degli storici j’accuse berlusconiani contro le toghe rosse. Ma c’è davvero bisogno di ricorrere ostinatamente al complottismo ogni volta che ci si trova davanti a una sentenza per quanto controversa possa essere? Ci sono sempre gli altri gradi di giudizio a garantire l’accertamento dei fatti.

La verità è che questa sentenza – che suona indirettamente come una censura contro certi abusi procedurali, contro le inchieste “monstre” con decine di imputati eccellenti e contro certe forme di giustizia-spettacolo – ha fatto venire a galla nodi la cui soluzione, a questo punto, appare ineludibile.

Nei due decenni passati, troppi procedimenti giudiziari sono stati messi in piedi senza che fosse garantito il necessario equilibrio tra i poteri dell'accusa e i diritti della difesa. Troppi procuratori, immaginando di essere negli Stati Uniti e di aver un elettorato al quale rispondere, hanno condotto le loro inchieste avendo di mira più la loro ricaduta politico-mediatica, che la loro effettiva consistenza sul piano del diritto penale. Troppe inchieste sono state basate su teoremi giudiziari o su ipotesi investigative di taglio vagamente cospiratorio, con l'idea cioè non di perseguire reati concreti, ma di voler scovare verità nascoste, di andare al cuore di chissà quale segreto insondabile, di mettere a nudo la corruzione, il degrado morale e le colpe non di singoli uomini, ma di un intero sistema.

Tutto ciò con quel che chiamiamo convenzionalmente Stato di diritto, con un sistema giudiziario chiamato ad applicare la legge e i codici, non a sanare il mondo e a vendicare i torti, ovviamente non c'entra nulla. Questa è l'idea di giustizia, redentrice e purificatrice, ma profondamente distorta e ideologica, che una certa magistratura ha coltivato per anni e che ha finito per condizionare pesantemente la storia recente dell'Italia, senza peraltro arrivare a guarire il Paese dal suoi mali: dalla corruzione all’intreccio perverso tra politica e malaffare. La vicenda di de Magistris – uno dei simboli di quella stagione, rimasto in fondo vittima di se stesso – ci dice che forse è giunto il momento di cambiare radicalmente pagina: di impostare su basi nuove, di reciproco rispetto e indipendenza, il rapporto tra magistratura e politica e di ricondurre l'attività giudiziaria nel suo alveo istituzionale. Non sarebbe, come qualcuno pensa, un favore fatto ai corrotti, ma la fine di un equivoco storico e un gesto di responsabilità nei confronti dei cittadini.