Scenari d’autunno/ Le garanzie al sistema prima dei giochi tra i partiti

di Alessandro Campi
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Lunedì 29 Maggio 2017, 00:53
La migliore legge elettorale è quella che trova l’accordo in Parlamento dei partiti che la votano. Il resto sono discussioni da manuale di politologia: interessanti sul piano della dottrina, ma politicamente ininfluenti. Il pressing discreto del Quirinale (a conferma della sua centralità strategica nelle dinamiche della politica italiana) ha spinto il Pd, Forza Italia, il M5S e la Lega a convergere - anche se con motivazioni, argomenti e finalità tra di loro diverse, e salvo sorprese o ripensamenti sempre possibili - su un sistema di voto ricalcato sul modello tedesco: un proporzionale corretto da una soglia di sbarramento del 5%, ancora tutto da definire nei suoi dettagli tecnici, laddove possono proverbialmente nascondersi le code di molti diavoletti.

Renzi, nell’intervista di ieri al “Messaggero”, lo ha definito un accordo pragmatico: l’unico possibile dopo che gli italiani hanno bocciato al referendum le sue proposte di riforme costituzionali. Un voto il cui esito è stato in effetti paradossale: ha indebolito Renzi, costringendolo a lasciare il governo, senza però rafforzare nessuno dei suoi oppositori, a partire dagli scissionisti del suo stesso partito. Ne è derivato il clima politico incerto e febbricitante che abbiamo conosciuto in questi mesi e che certo non ha contribuito a rafforzare l’esecutivo guidato, pur con molto equilibrio, da Paolo Gentiloni.

L’intesa sulla legge elettorale, sempre che si concretizzi, apre scenari interessanti anche se pieni d’incertezze.
Lo sbarramento proposto al 5%, purché non aggirato attraverso accordi di desistenza tra i partiti nei diversi collegi, potrebbe significare – stando alle simulazioni già effettuate – una drastica semplificazione della rappresentanza parlamentare, come mai si è avuta nella storia repubblicana: otterrebbero seggi solo quattro partiti, esattamente i sostenitori della nuova formula di voto. Ai partiti minori e alle aggregazioni o sigle parlamentari che si spacciano per partiti resterebbe solo una scelta: sparire o confluire nei soggetti più grandi. Anche se non bisogna trascurare la forza mobilitante ideologica, dinnanzi al rischio di uscire dalle aule parlamentari, della sinistra e della destra radicali.

Una nuova legge elettorale non significa automaticamente la fine anticipata della legislatura, anche se Renzi lo vuole e lo spera, avendo su questo punto trovato sicuramente un accordo almeno con Berlusconi. Ci sarebbe persino la data: il 22 ottobre. Che permetterebbe non solo di sfruttare la scia delle elezioni tedesche di settembre, da cui è probabile venga fuori l’ennesima Grosse Koalition tra popolari e socialisti e dunque l’ennesima sconfitta per le forze populiste e antisistema. Ma consentirebbe anche di neutralizzare il risultato delle elezioni regionali siciliane di novembre (dove ci si aspetta una facile vittoria grillina), di mettere la sordina al referendum autonomista voluto dalla Lega in Lombardia e Veneto proprio nella stessa data e, soprattutto, di non assumersi la responsabilità politica dinnanzi agli elettori di una Legge di Stabilità che già si annuncia “lacrime e sangue”. Rispetto a questo troppo facile scenario il problema, per così dire, è rappresentato dal Capo dello Stato. Che ha chiesto esplicitamente nuove regole per andare al voto condivise largamente dalle forze politiche, ma che deciderà di anticiparlo, sciogliendo la legislatura, ad una precisa condizione, in questo caso sussurrata e lasciata trapelare con la consueta discrezione. La sua idea, considerate le incognite sull’esito elettorale e sui futuri equilibri parlamentari, e considerata la possibilità che la nascita di un nuovo governo richieda trattative lunghe e delicate, è che i partiti che si stanno accordando sulle nuove regole di voto si debba impegnare, contestualmente e pubblicamente, circa la messa in sicurezza dei conti del Paese.

Il voto sulla Legge di Stabilità dovrà dunque essere, comunque voteranno gli italiani, il primo atto politico del nuovo Parlamento, nell’interesse generale e per evitare di finire nel gorgo della speculazione internazionale.
Le incertezze di un voto con la legge elettorale di cui si sta ragionando – che chiude sul piano simbolico 25 anni di storia italiana: quella che politicamente ha inseguito il sogno di una democrazia basata sul maggioritario e sulla logica dell’alternanza – sono infatti evidenti. Con gli attuali rapporti di forza, meno partiti non vuol dire governabilità o fine dei governi di coalizione. Se anche essa conterrà un premio di maggioranza per chi superi la soglia del 40% dei voti, nessun partito sembra in grado di raggiungerla. E’ dunque aperta la strada per accordi e alleanze parlamentari molto diverse tra di loro e persino complicate da realizzare. Si dà per probabile (e forse anche per auspicabile) una saldatura parlamentare tra Pd e Forza Italia e la nascita di un esecutivo di large intese tra sinistra liberale e riformisti di centro. Ma sulla carta, numeri alla mano, incombe anche il rischio della “grande alleanza” dei populismi (Lega e grillini).

Senza considerare la possibilità di un’intesa tra M5S e Pd che lascerebbe fuori Berlusconi e Salvini, nuovamente alleati ma all’opposizione. In tutti i casi sembrano formule parlamentari e di governo dettate dalla necessità e dalla mancanza di alternative, non dalla coerenza di un progetto comune, e come tali fatalmente destinate ad essere precarie. Ma questa è la realtà attuale della politica italiana, sulla quale Renzi ha ironizzato con amarezza: si temeva l’uomo solo al comando, non ci si lamenti ora dei governi di coalizione.
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