Istituzioni e popolo/Dopo la firma dai lussi etici si passi ai fatti

di Alessandro Campi
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Sabato 25 Marzo 2017, 00:01
Tra le tante invenzioni politiche del genio europeo c’è anche la nobile arte della diplomazia tra Stati. Fatta di pazienza, di parole scelte con cura e dette al momento giusto, di silenzi eloquenti, di fermezza non arrogante e di una disponibilità all’ascolto delle altrui ragioni che non deve mai essere scambiata per cedimento o arrendevolezza.
A tutto questo storico bagaglio professionale si è dovuto ricorrere, nei giorni scorsi, per evitare che la ricorrenza dei sessant’anni dalla nascita dell’Europa unita si risolvesse in uno scacco politico-simbolico. La “Dichiarazione di Roma” – che verrà firmata oggi nella stessa aula del Campidoglio ove furono siglati i Trattati originari – è stata un piccolo capolavoro d’equilibrismo, che però consentirà a tutti i 27 membri dell’Unione di apporre il loro sigillo formale sul documento. 
Grecia e Polonia, come è noto, premevano - più per ragioni strumentali e interne che per intima convinzione - affinché nei testi ufficiali non ci fossero accenni espliciti o troppo impegnativi al modello di un’Europa a due velocità.

 Quest’ultima, d’altronde, è l’unica prospettiva realistica per evitare che la ricerca di un consenso unanime per ogni decisione collettiva produca, come è accaduto sempre più spesso, una situazione di paralisi o stallo. Che è poi la vera ragione della diffidenza e sfiducia che la costruzione politico-burocratica europea provoca, da alcuni anni, in un numero crescente di cittadini.

Misurando i termini, ammorbidendo i concetti, edulcorando le prospettive e gli impegni, si è alla fine arrivati ad una formulazione che accontenta tutti ma che non nasconde la possibilità per gli Stati europei, pur agendo insieme e nella stessa direzione, di procedere quando necessario “a ritmi e intensità diversi”. Lo spirito della leale e mutua cooperazione è salvo, ma ne è uscita salva anche l’idea che sia urgente, per salvare l’Europa dalla dissoluzione, un cambio di passo e strategia che implica pragmaticamente un meccanismo flessibile e variabile di integrazione gestito, quando occorra, da un’avanguardia di Stati.

D’altro canto la cornice storica in cui s’è svolto questo sessantesimo ha parlato chiaro anche al più ottuso o ingenuo degli europeisti. Quella che poteva essere una festa suggestiva ha infatti dovuto fare i conti con un clima di paura (a causa della persistente minaccia terroristica, che spinge ormai i governanti ad isolarsi fisicamente più di quanto già non siano) e di diffuso scetticismo, quando non di aperta ostilità. Clima ben simboleggiato dai cortei romani di coloro che l’Europa unita la considerano non un grande sogno da rilanciare ma una iattura epocale alla quale mettere fine; e confermato soprattutto dal favore elettorale crescente di cui godono nel continente tutti quei partiti, di destra o di sinistra, che considerano Bruxelles un cenacolo di burocratici privi di sensibilità sociale e del tutto scollati dal sentimento popolare.

E che è diventato persino inutile, per non dire controproducente, liquidare col termine che si vorrebbe spregiativo di “populismo”. Caso ha poi voluto che ci fosse anche la coincidenza, simbolicamente malaugurante, dell’inizio delle procedure che porteranno la Gran Bretagna al suo definitivo addio all’Europa. Addio che forse si potrebbe persino evitare entro i prossimi due anni se solo venisse offerta al governo e ai cittadini di quel Paese qualche seria ragione per ripensare, per via parlamentare, la loro scelta isolazionista. Il che porta a ragionare del significato reale di questa ricorrenza e degli impegni formali che sembrano accompagnarla.

A Roma oggi si firmerà una dichiarazione che sembra sottintendere un ripensamento critico salutare su come è sinora proceduta la costruzione europea. Ma le parole non seguite da atti coerenti in politica non contano nulla. Anzi, generano frustrazione e risentimento. Dopo gli impegni solenni servono dunque fatti e decisioni che facciano intendere la volontà politica di una svolta radicale rispetto al passato su temi decisivi (e assai sentiti dai cittadini di ogni nazione europea) quali, ad esempio, la gestione dei flussi migratori, le politiche di sicurezza e difesa, la salvaguardia dei diritti sociali sempre più minacciati dalla crisi finanziaria globale, il rilancio occupazionale soprattutto per i giovani, l’adozione di procedure decisionali e di forme di rappresentanza politica che restituiscano ai cittadini europei la sovranità che hanno perduto.

Prendiamo come esempio particolare l’immigrazione, tema sul quale soprattutto noi italiani abbiamo misurato lo scarto che c’è stato in Europa tra le belle parole edificanti dette in pubblico e lo scaricabarile ipocrita determinato dagli egoismi nazionali.

Invece di fare l’elogio dell’accoglienza rivolta verso chiunque – un lusso etico che può semmai concedersi un capo religioso – dei capi di governo seri, fatto salvo il dovere di assistenza umanitaria, dovrebbero piuttosto interrogarsi sulla sostenibilità nel lungo periodo di un’ondata migratoria globale che rischia obiettivamente di alterare gli equilibri storico-sociali degli Stati europei e di determinare conflitti e tensioni crescenti. Su questo tema, dopo tante chiacchiere, si troverà una linea comune che consenta di perseguire al tempo stesso un’equa ripartizione dei rifugiati, politiche di integrazione che evitino la creazione di ghetti etnici o di comunità culturalmente ostili ai valori della democrazia liberale e una seria gestione del controllo alle frontiere? A Roma l’Europa è nata nel 1957 generando grandi aspettative di pace e benessere.

Nuovamente da Roma potrebbe ripartire dopo le molte delusioni che ha accumulato, anche se servirebbero un coraggio, una determinazione e un senso della responsabilità di cui ahimè non si intravvede che una pallida ombra.

 
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