Interpretare la legge senza recite a soggetto

di Carlo Nordio
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Martedì 10 Ottobre 2017, 00:05
Ricevendo i giovani magistrati, il Presidente Mattarella ha formulato alcune osservazioni; forse non tutte nuove, ma certamente tutte buone. Proviamo a riassumerle.

Primo. «La toga - ha detto - non è un abito di scena, ma una garanzia di imparzialità». Se possiamo permetterci una modesta integrazione, aggiungiamo che è soprattutto un simbolo di “separazione”. Come la tonaca del prete, la toga può anche occultare i peccati e i difetti della fragilità umana, ma serve proprio ad avvertire chi ci sta dentro, e chi ci sta davanti, che essa rappresenta un totale distacco tra la persona che la indossa e la funzione che esercita. Chi si inginocchia nel confessionale non si rivolge all’uomo, ma a Dio. E quando parla il giudice, non parla il dottor Tizio o il consigliere Caio, ma parla la legge. “La bouche de la loi”, come predicava Montesquieu. Forse oggi,in Italia, è difficile crederlo. Ma non è colpa di Montesquieu. È colpa di qualche toga.

Secondo. «L’interpretazione della legge - ha aggiunto coerentemente il Presidente - non può mai esprimere arbitrio». Sono parole sacrosante, che arrivano dopo decenni di dibattiti sul cosiddetto diritto vivente e sulla pretesa di alcuni magistrati di dare alle norme una interpretazione evolutiva. Evolutiva, s’intende, in conformità alle loro idee, e spesso ai loro pregiudizi ideologici.

Questa attitudine temeraria e grossolana è stata teorizzata negli anni sessanta, quando alcuni giovani pretori, riduttivamente e impropriamente definiti “toghe rosse”, hanno enunciato il principio, bizzarro quanto sciagurato, che ogni decisione giudiziaria ha comunque un forte connotato politico; e che quindi giudice, in quanto tale, fa necessariamente politica.

Da qui a concludere che il giudice “deve” fare politica, il passo è stato breve. E molti giudici l’hanno fatta davvero. Poco importa che l’abbiano fatta quasi sempre a senso unico. Sarebbe stato un sacrilegio anche se l’avessero fatta a senso alternato. Sta di fatto che da allora la politica è entrata nei processi e, come recita il brocardo, quando la politica entra dalla porta la giustizia esce dalla finestra. I danni recati all’una e all’altra sono stati disastrosi, e ci vorranno anni per riparali.Ma intanto le parole del Capo dello Stato costruiscono un buon motivo di riflessione.
Terzo. «L’attenzione dell’opinione pubblica non può e non deve condizionare le decisioni» - ha concluso il Presidente - e «il processo penale si svolge ( solo) nelle aule dei tribunali». Qui ci permettiamo ancora un’aggiunta. Nessuno dubita infatti che i magistrati siano immuni da condizionamenti esterni. Purtroppo la loro partecipazione ai talk show televisivi o addirittura a manifestazioni partitiche lascia spesso supporre che il loro coinvolgimento emotivo ne attenui l’immagine di imparzialità.

Si aggiunga che , vigendo in Italia il processo accusatorio anglosassone, andrebbe fatta una distinzione nettissima tra giudici e pubblici ministeri. Questi ultimi, essendo parti processuali come gli avvocati, non hanno i doveri e i limiti dei loro colleghi giudicanti. Tuttavia la separazione delle carriere è ancora di là da venire. E questo aumenta la confusione.

Un’ultima osservazione. Forse sarebbe stato gradito un cenno sui rapporti tra toghe e cariche politiche. Siamo sotto elezioni, e ogni giorno circolano nuovi nomi di magistrati candidati o candidabili: alcuni hanno, smentito, altri hanno tenuto un silenzio ambiguo.

Che bello sarebbe stato sentir dire: «Un magistrato non deve né può far politica attiva né durante né dopo la carriera, per rispetto all’imparzialità della toga e della sua autonomia dalla politica». Forse il Presidente questo non poteva sostenerlo, perché la Costituzione non lo consente. Il che tuttavia ci fa riflettere se la nostra Costituzione sia davvero la più bella del mondo.
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