Intercettazioni senza virgolette, una foglia di fico

di Massimo Adinolfi
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Sabato 9 Settembre 2017, 00:05
Niente più virgolette, ma solo parafrasi del contenuto delle intercettazioni. È una rivoluzione? Dipende.

Se il ministro dello Sviluppo economico si lamenta di essere trattata dal compagno come una lavandaia del Guatemala, non si potrà più leggere, tra virgolette: «Mi tratti come una lavandaia del Guatemala!». Per evitare le virgolette e fare la differenza tra il discorso diretto e il discorso indiretto può, però, bastare una semplice congiunzione. Come il bacio è un apostrofo tra le parole «T’amo», così la riforma delle intercettazioni rischia di essere solo una congiunzione - «che» - posta, invece dei due punti, tra il verbo «dice» e la frase intercettata: tanto occorre, difatti, per togliere le virgolette alla frase.

Non è questo lo spirito del provvedimento, ovviamente, e anzi il ministro Orlando si trova ad essere attaccato dalla stampa giustizialista, che lo accusa di voler limitare l’informazione con la scusa della tutela della privacy. Ma questi esercizi di interpretazione, o di stile, cui sarà chiamato il magistrato per inserire nei suoi provvedimenti, rigirandoci attorno, il materiale raccolto tramite le intercettazioni rischiano di accendere una discussione fuorviante. Per i paladini della stampa libera, qualunque filtro o limitazione alla diffusione è da ritenersi, in realtà, un divieto ingiustificabile. E, in effetti, qualche misura in tal senso c’è. La bozza predisposta negli uffici di via Arenula prevede che non possa essere trascritta la telefonata tra l’avvocato e il difensore che fosse stata eventualmente intercettata. Stessa sorte toccherà alle conversazioni che non siano giudicate rilevanti ai fini delle indagini. L’una e l’altra misura vengono ritenute in qualche modo lesive del diritto della pubblica opinione a conoscere vita morte e miracoli dei personaggi pubblici, ai quali non dovrebbe essere riconosciuto un diritto assoluto alla privacy, ma solo un diritto limitato, attenuato, come numerose sentenze delle più alte corti di giustizia italiane ed europee hanno in più circostanze ribadito.

Discussione fuorviante, però: lo ripeto. Per una ragione essenziale: perché non affronta il tema più spinoso, cioè qual genere di strumento siano le intercettazioni, a cosa debbano servire, e dunque entro quali limiti sia bene consentirne l’utilizzo. Anche nell’intervento che il Ministero ha elaborato, a quel che si capisce, pare che l’unico nodo che il legislatore deve affrontare riguardi la diffusione del loro contenuto. È sorprendente allora apprendere che, in base alla bozza, il magistrato potrà disporre la trascrizione delle intercettazioni in un solo caso, quando “il pm ne valuti la rilevanza per i fatti oggetto di prova”. È sorprendente non perché sarebbe una misura troppo restrittiva, come ritiene il partito giustizialista che vorrebbe poter leggere di tutto e di più, ma perché non è chiaro per quale motivo si dovrebbe fornire la parafrasi di tutte le altre intercettazioni, di quelle cioè che non abbiano rilevanza per i fatti oggetto di prova. Di queste intercettazioni si fornirà, avvolto in circonlocuzioni e parafrasi, il contenuto. Ma la domanda inevasa è: se non sono rilevanti per i fatti da provare, per cosa sono rilevanti? E più in generale, cosa bisognerebbe augurarsi che abbia rilievo per il diritto penale, ai fini dello svolgimento del processo, oltre a quel che riguarda i fatti costituenti reato? In verità, la sfera di questa rilevanza si è di molto ampliata, e da tempo, finendo col riguardare cose come le condotte, l’ambiente, il contesto, la personalità di quanti sono fatti oggetto di indagine. Sempre al fine di restituire meglio la materia su cui un giudice dovrà infine giudicare, ma col risultato che nei faldoni delle inchieste ci può ormai finire la qualunque. Ora c’è (o ci sarebbe) uno stop alle parole espresse, direttamente pronunciate dalle persone intercettate. Ma la qualunque, sia pure parafrasata, rimane la qualunque.

Certo, non è facile tirare una linea. E lo è sempre meno, quanto più ci si è allontanati da una concezione liberale del diritto, in cui si cerca per principio di restringere il più possibile i margini di interpretazione nella qualificazione giuridica dei fatti, si tende a preferire la certezza all’efficacia, e non si sacrifica il rispetto di tutele e garanzie al perseguimento dei reati.

Ma la cosa riesce ancora più difficile quando le più pensose considerazioni su quale diritto, per quali procedure e quali processi, vengono sostituite dalla brama di fare nero il malcapitato di turno, si arrivi o no a sentenza. Perché questo è troppe volte diventato il vero movente della diffusione del contenuto delle intercettazioni: qualche volta per merito della stampa (il che ci può stare, se e nella misura in cui la stampa mantiene, in democrazia, una funzione di contro-potere), qualche altra volta invece per colpa di certi pm, che, forse per tema di non farcela in tribunale, si prendono intanto la briga di dare avvio al processo sui giornali. Il tempo di dare attuazione alla delega non è molto, questo è vero. Ma è auspicabile che, nella fase avviata con questa prima relazione illustrativa fatta circolare negli uffici giudiziari, venga usato nel migliore dei modi. Non per portare a casa un risultato pur che sia, ma per correggere convinzioni e prassi fin qui assai dubbie.

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