Bene ha detto Gentiloni nella conferenza stampa finale: non era scontato. Non solo per la presenza di Trump. È troppo comodo infatti presentare il G7 come una partita degli Usa contro tutti: anche gli altri Paesi sono separati da divisioni importanti tra loro, basti pensare al governo britannico nei confronti della Ue sul periglioso crinale dei negoziati per l’uscita del Regno Unito.
Oppure al fatto che May ma anche Merkel si trovano in campagna elettorale: e non potevano cedere su temi considerati cruciali dai loro elettori. Che quindi, grazie al governo italiano, il G7 si sia chiuso con un documento comune è un risultato notevole. C’è stata battaglia politica, certo. Come ha ricordato Gentiloni, le conclusioni dei G7 passati si conoscevano sempre mesi prima del loro svolgimento; ma questa volta no.
E quando c’è competizione politica è sempre un bene, purché condotta nei modi e nelle forme adeguate. Già, i modi e le forme.
Gli alfieri del bon ton diplomatico hanno deprecato certe condotte di Trump, in effetti anomale nei solitamente compassati summit. Ma quello che spesso si dimentica, nel valutare il presidente Usa, è che egli è un imprenditore e non un politico di professione, come invece gli altri partecipanti del G7 (tranne Macron, che però viene dall’alta funzione pubblica francese, un corpo d’élite molto istituzionale). Perciò continuerà a condursi così, almeno quando vorrà mandare dei segnali chiari: che egli rappresenta l’America e i suoi interessi, che non intende più svolgere il ruolo di protettore dell’Europa e che non desidera più fungere da elemento di stabilità economica, e non solo, per il mondo.
Per questo probabilmente sul clima Trump non cederà. Le stesse ragioni hanno condotto gli Usa a frenare le proposte italiane sui migranti. Un grosso errore. Il problema dei migranti è causa e al tempo stesso effetto di altri fenomeni, dal terrorismo alla ricostruzione del Medio Oriente, al decollo economico dell’Africa: e tutti toccano anche gli interessi degli Usa. Le migrazioni non si risolvono con la nociva retorica delle «frontiere aperte» ma neppure con la inefficace proposta dei muri: meglio cercare un accordo politico tra le grandi potenze sulla regolazione delle quote e per un new deal verso i Paesi dell’Africa e dell’Asia.
E qui è dubbio che uno strumento come il G7 possa essere ancora utile. Ideato negli anni Settanta dello scorso secolo, ha dominato dopo la guerra fredda, negli anni del trionfo ideologico, prima ancora che economico, della «global business revolution», per dirla con Peter Nolan. Ma questo tempo è finito. E non per colpa di Trump o di May che sono piuttosto l’effetto di un ritorno dei poteri verso il quadro nazionale. Sarebbe un grosso errore se i governi europei non se ne rendessero conto, convinti che passata la «tempesta Trump» si potrà rivenire ai bei tempi che furono. Proprio perché, come scrive il politologo francese Bertrand Badie, stiamo entrando in un «ordine neo-nazionale», i Paesi leader del mondo, e non più solo i sette, dovranno dotarsi di strumenti efficaci. Di competizione tra loro, ma anche e soprattutto, di confronto.
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