Un film sul male d’oggi/ La fede cieca nelle bugie dei falsi guru

di Mario Ajello
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Mercoledì 8 Novembre 2017, 00:12
È il momento d’intraprendere una battaglia culturale. Quella della democrazia della conoscenza contro la (pseudo) democrazia della credulità. A riprova del fatto che gli illuministi, da super-critici, erano nel giusto quando avvertirono i posteri sui limiti della ragione e sui danni delle superstizioni, dei pregiudizi, degli oscurantismi fintamente salvifici.

Vediamo oggi ciò che loro avevano intravisto nel diluvio di fake news, nei deliri No Vax, nelle bufale in cui non si distinguono i fatti (più o meno probabili) dagli inganni (più o meno sicuri), negli infiniti discorsi a vanvera pseudo-scientifici o pseudo-storici (Cristoforo Colombo? Un torturatore di pellerossa!) che diventano opinioni correnti e talvolta perfino politicamente corrette. A suo modo parla di tutto questo, anche oltre le intenzioni, “The Place”: il nuovo film di Paolo Genovese che esce domani per la produzione di Medusa (di cui è timoniere Giampaolo Letta).

Seduto in un angolo di un ristorante, c’è un personaggio faustiano (Valerio Mastandrea) che incontra e ascolta dieci persone e a tutte loro garantisce con certezza che realizzeranno i loro desideri, risolveranno i loro problemi, realizzeranno i propri disegni anche i più indecenti, affidandosi al suo intervento quasi miracolistico. «Come faccio a sapere che lei non è il diavolo?», gli chiede Sabrina Ferilli. E Giallini: «Sei un mostro». E lui: «Diciamo che do da mangiare ai nostri». Così, Mastandrea spinge un padre ad accettare di uccidere un’innocente bambina, pur di ottenere la guarigione del proprio figliolo destinato a morire di cancro. A una suora in crisi di fede dice che deve restare incinta. A un cieco prescrive di violentare una donna. A una vecchietta, che deve curare il marito malato di Alzheimer, consiglia con sguardo gelido di mettere una bomba in un locale. Deliri da guru, false ricette, tenebrose provocazioni che parlano del tema forte, e super-contemporaneo, del che cosa sei disposto a fare per realizzare i tuoi scopi e del punto di credulità a cui sei ragionevolmente in grado di inabissarti, pur di prendere per buone le soluzioni proposte dal diavolo.

Del «pensiero diabolico che diventa gioco» ha trattato il filosofo Emmanuel Levinas, analizzando come l’improbabile e l’imbarazzante possano diventare realtà di pensiero contagiosa. Qui siamo cinematograficamente su quel tipo di terreno, popolato da masse di creduloni contemporanei, la cui ragione che dovrebbe essere liberatrice - come si pensava una volta - diventa invece schiava di un pifferaio o dei pifferi che suonano sulla Rete o nella pseudo-letteratura anti-scientifica, o nelle teorie cospirazioniste per cui l’11 settembre fu un auto-complotto o nella patafisica delle scie chimiche, o in tutte le altre fanta-teorie che si auto-legittimano a furor di massa, senza che nessuna di essa abbia valore provato. 
Una cieca credenza diventa sostitutiva della coscienza. La manipolazione schiaccia la ragione. E non c’è soltanto passività in questo processo, perché forse è più facile cercare una conferma in qualche ricetta strampalata che cercare in se stessi la forza della lucidità e della buona informazione, che consentono di affrontare le cose nella maniera più appropriata. E c’è anche, purtroppo, una sfida nel momento in cui scegliamo di superare noi stessi affidandoci a qualcuno o a qualcosa di apparentemente salvifico, sacrificando però la nostra identità di pensanti e quindi anche la dignità. 

Il film di Genovese iconizza e fa pensare, anche più di quanto forse vorrebbe, a questo carattere della contemporaneità - più che una caverna platonica, una caverna sotto-culturale - nella quale all’epoca dei blogger, degli influencer e degli algoritmi la ragione liberatrice si spoglia della propria consapevolezza. Negando alla radice il mondo illuministico da cui proviene la cultura moderna. Non a caso proprio Voltaire, alla credulità, analizzata caso per caso e senza nessun senso di superiorità da sapiente, ha dedicato una delle sue opere più importanti, concepita nel 1740 e pubblicata nel 1753: il “Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni”. In cui fa polemica contro il fanatismo e le religioni, ma è cosciente che i percorsi storici sono assai spesso incoerenti e lontani purtroppo da principii razionali. Per cui questo nostro tempo è anche quello in cui ci si fa plagiare per scelta, nelle opzioni interiori così come nei comportamenti sociali, politici e anti-politici, e in cui il ciarlatano - quella antica figura medievale che è diventata anche tecnologica - vale quanto un economista o un grande medico o un sommo pensatore (ammesso che ne siano rimasti). E per di più, con coloro che si affidano alle ricette e ai sensali più bislacchi, come quello perfettamente descritto in “The Place”, c’è anche - oltre al danno a se stessi - il danno che producono al resto della comunità. Perché le falsità più andanti e i veleni più tossici sono quelli che si spargono con maggiore facilità. Come si era capito fin dai tempi di Duns Scoto, anche se questa proverbiale massima gli è stata erroneamente attribuita: ex falso sequitur quodlibet (dal falso segue qualsiasi cosa a piacere). 

La battaglia della democrazia della conoscenza contro la (pseudo)democrazia della credulità è dunque necessaria, perché quest’ultima si sta imponendo nell’immaginario collettivo e nella narrazione pubblica. E non è facile contrapporvisi. Perciò il guru Mastandrea del film appare come una figura sicura di sé. Contrapposta alla folla inerme, che si abbevera alle sue improbabili verità, senza avere gli strumenti per difendersi. La società liberale è quella che dovrebbe dare a questa folla gli strumenti intellettuali per combattere.
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