Voto in Grecia, Renzi: «Gli italiani non devono temere nulla»

Voto in Grecia, Renzi: «Gli italiani non devono temere nulla»
di Barbara Jerkov
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Domenica 5 Luglio 2015, 06:19 - Ultimo aggiornamento: 6 Luglio, 20:18
L'Italia non ha nulla da temere dal referendum greco: la stima di Standard & Poor's di 11 miliardi di danni che il nostro Paese potrebbe subire considera uno spread a 650 per un anno. «Cifre», avverte Matteo Renzi, «in nessun modo realistiche, nemmeno nei giorni più neri dell'economia italiana di qualche anno fa». Mentre quel che è certo, è che anche se vincessero i no si aprirà una stagione nuova per chi in Europa crede nella crescita con un ruolo politico-chiave proprio per l'Italia, chiamata a mediare tra Berlino e Atene.



Dunque presidente, gli italiani comunque vada a finire il referendum greco possono stare tranquilli?

«Noi non diciamo che andrà tutto bene: diciamo più semplicemente che il lavoro fatto in questi mesi mette l'Italia in condizioni diverse rispetto al passato. Non siamo più sul banco degli imputati, non siamo più citati come i compagni di sventura della Grecia. Quanto alla reazione al referendum e alle trattative che si apriranno il giorno dopo – qualunque sia il risultato – lavoriamo in stretto contatto con i nostri partner europei».





Lei ritiene che occorra tornare a trattare con la Grecia anche in caso di vittoria del no. Su questo punto però c'è una chiusura quasi totale della Germania e di altri Paesi nordici. Ne ha parlato l'altro giorno con la cancelliera Merkel? Che tipo di negoziato immagina?

«Quando vedi un pensionato piangere davanti alla banca o la gente in coda ai bancomat ti rendi conto che un Paese così importante per il mondo e per la sua cultura come la Grecia non può finire così. Quindi è ovvio che dal giorno dopo si dovrà tornare a parlare e la prima a saperlo è proprio Angela Merkel. Ovviamente è impossibile salvare la Grecia senza l'impegno del governo greco: la riforma delle pensioni, la lotta all'evasione, il nuovo mercato del lavoro dipendono da loro».



Se alla fine si arrivasse davvero a una rottura, è concepibile possa restare nell'euro una Grecia in default?

«Ancora non si è fatto il referendum. Poi le parti discuteranno. Prima di fare ipotesi azzardate, lavoriamo per trovare soluzioni».



L'Italia ha prestato in totale alla Grecia circa 40 miliardi di euro. Nel caso si vada verso un'intesa che preveda anche un taglio del debito greco, l'Italia sarebbe disposta a cancellare i 10 miliardi di prestiti bilaterali? E questa perdita sarebbe compensata con qualche misura una tantum o si trasformerebbe in un aumento strutturale del debito pubblico italiano?

«L'Italia partecipa ai salvataggi assieme alle altre istituzioni internazionali. Tutto qui. E questi denari sono già computati nel debito pubblico».



Da Berlino lei ha auspicato una “terza via” tra rigorismo alla tedesca e modello Grecia. C'è il rischio che la linea della crescita possa uscire indebolita dall'arroccamento di Atene?

«No. Atene sta facendo una battaglia, più o meno efficace, per salvare la Grecia. Quando finalmente terminerà la discussione greca, ci occuperemo della crescita e degli investimenti. Che servono a salvare l'Europa, non l'Italia».



L'altro giorno lei ha confidato di temere più del caso Grecia, il terrorismo: cosa intendeva dire in concreto? Ha avuto segnali dai Servizi di un'Italia nel mirino dell'Isis?

«Esattamente quello che ho detto, niente di più, niente di meno. Non abbiamo segnali specifici sul nostro Paese. Ma il terrorismo è un problema enorme. Kuwait, Francia, Tunisia, Egitto: l'ultima settimana è stata una carneficina. L'Italia sta facendo la sua parte come dimostrano gli arresti di queste ore e lo smantellamento di una cellula terroristica di cui abbiamo parlato anche con il presidente Obama. Mi piacerebbe che ci fosse un clima di unità nazionale. Invece anche gli ultimi arresti sono stati il pretesto per la polemica di alcuni partiti contro il Governo. Ma la sicurezza e l'antiterrorismo dovrebbero essere patrimonio di tutti. Non essere usati per una campagna elettorale permanente. Qui c'è in ballo l'Italia, non un partito politico».



L'altro aspetto che riguarda l'Europa è la politica dell'immigrazione: l'ultimo Consiglio Ue da questo punto di vista è stato una delusione, con il sistema delle quote cancellato dai veti nordeuropei. Una presa in giro dopo tante parole?

«Ho un giudizio diverso dal suo, che pure rispetto. Per me è stato un passo in avanti. Piccolo, ma in avanti. E non è un caso se lo abbiamo ottenuto prendendoli per sfinimento alle tre di notte. Le regole firmate negli anni scorsi dai governi precedenti impongono all'Italia di fare tutto da sola con i richiedenti asilo che vengono dal Mediterraneo. A me pare un errore, ma purtroppo sono accordi che hanno la firma del nostro Paese: dunque si rispettano. Con l'ultimo Consiglio abbiamo convenuto che l'Italia riceverà soldi per rimpatriare i migranti che non hanno diritto e che quarantamila rifugiati saranno accolti dagli altri Paesi. Si poteva fare di più, certo: ma prima erano zero, adesso sono quarantamila. È un passo in avanti. Le regole sono chiare. Se c'è qualcuno in mare, noi lo salviamo: perché apparteniamo all'umanità e dunque una vita vale più di un sondaggio. Chi possiamo salvare, viene salvato. A quel punto: se ha diritto di stare in Italia, lo accogliamo. Se non ha diritto di restare, lo rimpatriamo».



Passando alle questioni interne, arrivando a palazzo Chigi lei ha messo in cima alla sua agenda il lavoro e la politica industriale. Ricordo un colloquio con il nostro giornale in cui parlò della necessità dopo anni di turbofinanza di rimettere l'economia reale al centro dell'azione di governo. Era esattamente un anno fa: con il decreto di venerdì su Fincantieri e Ilva ha consentito la ripresa della produzione bloccata dalla magistratura, con la mediazione su Whirpool ha impedito la chiusura degli impianti. Tutti provvedimenti attesi ma inseriti in una serie di misure spot, mentre le aziende invocano da anni interventi strutturali. Cosa aspetta il governo?

«Mai visto uno sforzo del genere sulle crisi aziendali, dove ancora ieri con Firema abbiamo salvato quasi 500 lavoratori. Nella stessa settimana in cui abbiamo salvato la fabbrica di Carinaro in Campania con la Whirlpool. Se prende una cartina vedrà che da Terni a Trieste, da Piombino a Spello, da Taranto a Gela, da Livorno a Spezia sono tantissimi i luoghi in cui fabbriche che sembravano finite sono state riaperte. Il lavoro si difende così, aprendo le fabbriche sul territorio, non aprendo la bocca nei talkshow. Per non parlare delle realtà dove si viaggia a doppia velocità, a cominciare dalle fabbriche Fiat, come Melfi, Grugliasco o Cassino fino alle realtà dell'agroalimentare che vedono una crescita notevole anche grazie all'Expo o a chi vende all'estero».



Eppure in questi mesi si sono levate voci di imprenditori delusi che evidentemente si aspettavano uno sprint diverso, più fatti e meno annunci.

«Più fatti? Senta, la sfido a trovarmi un imprenditore che il 4 luglio di un anno fa si sarebbe mai aspettato che con il Jobs Act cancellassimo l'articolo 18. Invece l'abbiamo fatto, così come abbiamo abbassato i contributi per chi assume a tempo indeterminato, eliminato la componente lavoro dall'Irap, operato sulla semplificazione fiscale e burocratica su cui pure c'è ancora da fare. In un anno. Posso dirlo? Non ci credevo nemmeno io. Poi che nessuno sia mai contento fa parte delle regole del gioco. E il bello è che siamo appena all'inizio, vedrà la legge di stabilità 2016! Noi andiamo avanti».



E' vero che sulla sua scrivania c'è un vero e proprio dossier Sud: cosa prevede?

«Al Sud servono solo singoli interventi puntuali. Mezzo miliardo di contratti di sviluppo da firmare a settembre. Interventi specifici e monitorati caso per caso. È finito il tempo delle grandi riflessioni filosofiche sul Mezzogiorno: il Sud riparte solo se si sbloccano i cantieri fermi da anni. La salvezza per il meridione non arriva dall'alto, ma dall'impegno costante di tutti i giorni. Mi lasci dire che in queste ore siamo soddisfatti per Caserta, per Carinaro, come pure per Olbia, Modugno, Reggio Calabria e potrei continuare. Ma ciò che serve è dire al Sud: basta lamentazioni, ripartiamo. Dandoci tempi certi su tutto: dagli asili nido alla Napoli Bari. Dai viadotti Anas in Sicilia fino ai fondi europei per Pompei. E via dicendo».



Lei ha spesso ripetuto che le riforme sono la migliore assicurazione sulla stabilità anche economica del nostro Paese. Ora per la riforma del Senato 25 senatori del Pd chiedono formalmente che si torni a un Senato elettivo. Non è che pur di ricompattare la maggioranza si ricomincia tutto da capo?

«Ho sempre dato la disponibilità a parlarne e la confermo. Su alcuni punti c'è un inspiegabile avanti-indietro con le richieste della minoranza al Senato che chiedono di cancellare le modifiche introdotte su richiesta della minoranza alla Camera. Noi siamo pronti a discutere di tutto, prendendoci questi giorni di luglio per verificare tutti insieme con spirito costruttivo le eventuali proposte di modifica».



Mi sta dicendo che se anche non si finisse in Senato entro agosto non sarebbe la fine del mondo?

«Conta far le cose bene, non correre per forza. Ma poi il ddl Boschi andrà avanti e sarà approvato: a quel punto saranno i cittadini a decidere, con il referendum, il prossimo anno».



Venendo al caso Roma. Lei nelle scorse settimane non ha lesinato critiche al sindaco Marino, dicendo che vede elezioni a Roma nel 2016 e che “fossi in Marino non sarei tranquillo”. La linea del Pd sul futuro della città è sempre stata aspettare la relazione del prefetto per poi valutare il da farsi. Ecco, se anche Gabrielli non dovesse come appare probabile riscontrare gli estremi per uno scioglimento del Campidoglio per mafia, pur segnalando uno stato di cose gravemente compromesso, lei quali scenari vedrebbe per la città? Marino dovrebbe in ogni caso fare un passo indietro per consentire a Roma di ripartire su nuove basi?

«Ho chiesto a Matteo Orfini di convocare la prossima assemblea nazionale del Pd nella sala delle conferenze dell'Expo. Pagheremo l'affitto della sala, come tutti, ovvio. Ma vogliamo fare la nostra assemblea dentro il cuore di un evento che molti altri politici volevano cancellare e che si sta rivelando una scelta straordinaria. C'è l'Italia delle opposizioni che è tutta incentrata sulle cose che non vanno, sulla rabbia, sulla polemica, sull'odio. E poi c'è l'Italia che ci prova. Che se sbaglia riparte, ma che non si abbatte mai. Perché questa Italia è quella della maggioranza delle persone: donne e uomini che vogliono bene al tricolore e non accettano di rassegnarsi alla paura. L'Expo è il simbolo più forte di tutto ciò».



Insisto sul caso Roma presidente.

«Non critico Marino. Ho fatto il sindaco e mai mi permetterei di giudicare dall'esterno. Dico solo che a Roma la situazione non è semplice. Andare avanti o fermarsi non è una scelta personale, ma una valutazione politica: se è in condizione di proseguire lo faccia, altrimenti chieda una mano. Io non mi permetterò mai di sostituirmi a Marino: lui decida cosa fare, partendo dal presupposto che qui nessuno ne mette in dubbio l'onestà. Quanto alla relazione, la leggeremo e poi decideremo. Rispettando le regole, come abbiamo sempre fatto».



Circolano sondaggi che vedrebbero i 5Stelle favoriti se si votasse oggi a Roma. Marino ha già detto che in ogni caso intende ricandidarsi: la ritiene una scelta opportuna o pensa sarebbe meglio puntare su un candidato della società civile?

«I sondaggi fotografano l'esistente e come noto non sempre ci azzeccano. Del resto le campagne elettorali dipendono dai candidati, dal clima del Paese, da vicende specifiche. Tutto l'anno commentiamo sondaggi che vedono M5S in grande crescita. Poi alla fine non vincono mai: credo che il partito di Grillo dopo anni governi in una decina di Comuni, abbia qualche centinaio di parlamentari che rifiutano puntualmente di incidere concretamente, non guidi nessuna regione. Mai vista una collezione di rimpianti così variegata come quella cinque stelle. Per carità, poi c'è chi si accontenta dei sondaggi. Ma secondo me se e quando si voterà il Pd può aver paura solo di se stesso e della propria innata capacità di farsi del male da solo».



Da settimane i romani sono in attesa di fondi e deleghe per il Giubileo: che fine hanno fatto? Ha individuato la persona cui affidare i poteri su organizzazione e gestione dell'Anno santo straordinario? Si parla del prefetto Gabrielli: potrebbe addirittura essere lui un candidato per Roma se si vota nel 2016?

«Vogliamo che il Giubileo sia un successo. Siamo pronti a dare una mano, non a buttar via i soldi. Il Comune non può usare il Giubileo come lo strumento per fare altro, specie pensando che questo Giubileo straordinario non è quello del Duemila. Dunque: ci aiutino a capire di cosa hanno bisogno. Noi come governo siamo pronti a fare la nostra parte, dalla sicurezza ai volontari. Ma perché le cose funzionino occorrono organizzazione e efficienza, non richieste a mezzo stampa. Un amministratore parla con le carte, non con i giornali. Se ci saranno progetti affidabili, noi daremo una mano al Comune di Roma. Altrimenti daremo una mano solo a Roma».



Quanto a Gabrielli?

«Gabrielli fa il prefetto. Ha molto da fare. E quando smetterà con la prefettura, avrà ancora molto di più da fare comunque. Lasciatelo lavorare».

Come mai non ha commentato in alcun modo la formalizzazione della candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024? Non sarà che, di fronte all'impasse in cui si è ritrovata l'amministrazione Marino travolta dalle inchieste giudiziarie, in lei sono sorti dei dubbi di fattibilità su questa grande impresa, a meno che non intervenga una svolta radicale?

«Felice per il grande lavoro di Giovanni Malagò. Noi ci siamo. Sono certo che anche il Comune creda in questo evento. La grande impresa è alla nostra portata, andiamo avanti».



Più in generale le giunte di centrosinistra nelle Regioni sono messe piuttosto male. A cominciare dal caso Campania: De Luca, secondo il tribunale di Napoli, potrà restare al suo posto fino alla decisione sul ricorso contro il decreto di sospensione che il governo ha adottato la scorsa settimana. Alla luce di come si sono messe le cose, primarie o non primarie, è stato un errore candidare nonostante tutto De Luca?

«La vicenda De Luca dimostra che siamo persone di parola. Ciascuno di noi, Palazzo Chigi, magistrati, Presidente della Regione, ha rispettato perfettamente la procedura prevista. Adesso che il problema è risolto, tutti al lavoro. Abbiamo chiuso la settimana con due buone notizie per Caserta e Carinaro, adesso la palla passa al presidente De Luca. Per come lo conosco, credo sia l'uomo giusto in questo momento della vita delle istituzioni campane. E io sono pronto a dargli tutto il mio sostegno: perché se riparte la Campania, riparte l'Italia».



Un'ultima domanda, presidente. Berlusconi ha accolto con un certo entusiasmo il preannuncio di discesa in campo di Della Valle. E lo stesso Della Valle le ha riservato espressioni ancora una volta alquanto dure: la preoccupa questo nuovo asse nel centrodestra?

«Sono felice di aver riportato l'armonia tra Berlusconi e Della Valle. Impresa non facile, o almeno così sembrava ricordando gli ultimi vent'anni. Ma battute a parte, io ho grande rispetto per Della Valle e Berlusconi. Non so se faranno un partito insieme o no. Non ho tempo per occuparmi di scenari politici, nuovi partiti, tattiche. Qui c'è un Paese che sta piano piano ripartendo. Noi lavoriamo tutti i giorni per fare le riforme e restituire speranza all'Italia. Quando arriveranno le elezioni, se i nostri concittadini sceglieranno il partito di Della Valle e Berlusconi – ammesso che lo facciano – io rispetterò il verdetto del voto. Per adesso lavoro, lavoro, lavoro pensando agli italiani, non ai giochi politici».