Furbizie pericolose/Il referendum spacca-Italia e i conti errati del nordismo

di Alessandro Campi
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Mercoledì 6 Settembre 2017, 00:04
Il prossimo 5 novembre si voterà per rinnovare il Parlamento regionale siciliano. Una scadenza sulla quale si è sviluppato un ampio dibattito, nella convinzione – forse un tantino esagerata – che le alleanze e gli equilibri di potere che si stabiliranno nell’isola sono destinati ad esercitare un’influenza determinante sulla politica nazionale. Quello siciliano non è però l’unico impegno elettorale in vista delle elezioni politiche della primavera del 2018.

Due settimane prima – per l’esattezza il 22 ottobre – anche i cittadini della Lombardia e del Veneto saranno chiamati alle urne. In questo caso per un referendum attraverso il quale le due Regioni – entrambe governate dalla Lega e dai suoi alleati di centrodestra – puntano ad ottenere dagli elettori il mandato per richiedere allo Stato centrale maggiori competenze. 
Ma diversamente dal primo appuntamento, quest’ultimo – che coinvolgerà 15 milioni di cittadini delle due aree più ricche e produttive del Paese – non sembra interessare granché. Come se si trattasse di una questione locale destinata a non avere alcun rilievo fuori dai confini dei territori interessati. 

Da un lato, nelle poche occasioni in cui se ne è parlato, si è definito questo referendum come del tutto inutile e velleitario, visto il suo carattere meramente consultivo e legalmente non vincolante. Dall’altro si sono giustamente denunciati i costi per la collettività (diverse decine di milioni di euro) di quest’ennesima chiamata alle urne, che in Lombardia si realizzerà ricorrendo in via sperimentale al voto elettronico.
Stiamo in realtà parlando di una scadenza che, per quanto sottovalutata a livello di dibattito pubblico, potrebbe avere notevoli implicazioni politiche, alcuni delle quali meritano di essere sottolineate. Già la data scelta per la consultazione è tutt’altro che casuale o neutra: come si è detto, il 22 ottobre. La stessa del plebiscito che nel 1866, al termine della terza guerra d’indipendenza, sancì l’annessione del Veneto, delle province venete e di quella di Mantova al Regno d’Italia. Il simbolismo del voto è sin troppo scoperto: si punta a realizzare, al di là delle parole rassicuranti con cui esso viene presentato dai suoi promotori, una sorta di contro-plebiscito, finalizzato a sancire la liberazione ‘virtuale’ del Veneto dall’Italia. Quanto alla Lombardia, non è un caso che l’indizione formale del referendum sia stata fatta lo scorso 29 maggio: nell’anniversario della battaglia di Legnano combattuta nel 1176 dai Comuni lombardi contro Federico II Barbarossa. 
Dinnanzi a queste evocazioni storiche e a questi roboanti richiami simbolici non basta consolarsi dicendo che si tratta di innocuo folclore politico. Sarebbe un colpevole errore. Infatti, non va sottovalutata la dimensione emotiva e irrazionale della politica, che spesso rappresenta il vero motore del cambiamento storico. Si può poi limitarsi a sostenere che anche nel caso di una vittoria schiacciante del fronte autonomista, data peraltro per scontata dai sondaggi, questo voto è destinato a non produrre alcuna conseguenza sul piano costituzionale. Ma la posta in gioco di quest’appuntamento, non è giuridico-legale, bensì politico-culturale. 
I promotori e i loro accoliti hanno messo nel conto l’effetto autogol e i contraccolpi di una risposta del Centro-Sud che potrebbe togliere agli abitanti del lombardo-veneto la rendita di posizione goduta fino ad oggi, con il concreto rischio di accollarsi la loro considerevole fetta di debito pubblico oltre che tutti gli oneri che spettano a chi realizza la secessione? 
Sin dalle sue origini la Lega ha sempre ambiguamente oscillato tra autonomismo e indipendentismo, tra federalismo (che presuppone il riconoscimento formale dell’unità nazionale) e secessionismo (che implica invece lo smembramento territoriale dello Stato e la creazione di nuove forme di sovranità politica). Come non vedere che questo referendum si inserisce in un contesto storico nel quale – come dimostrano i casi della Scozia e della Catalogna, ai quali i suoi promotori espressamente si richiamano – gli Stati nazionali, già ampiamente depotenziati dai processi di globalizzazione economica, sono sottoposti a spinte disgregative talmente forti da alternarne la forma istituzionale e i confini tradizionali? Ne abbiamo qualche avvisaglia proprio in questi giorni su un argomento come i vaccini che vede contrapporre le Regioni del Nord al governo.
Dal punto di vista formale, in effetti, ciò che Roberto Maroni e Luca Zaia riceveranno dai loro elettori sarà al massimo un mandato politico per intavolare una complessa trattativa con Roma che avrebbero potuto avviare comunque secondo quanto la legge già prevede (che è quel che ha fatto, ad esempio, l’Emilia-Romagna). Ma è chiaro che il loro obiettivo reale, ciò che li ha spinti a volere fortemente questa consultazione, è un altro: rilanciare, attraverso una grande vittoria elettorale, la Lega come il vero e unico “partito del Nord”. Il che significa riportarla alla sua matrice originaria e forse più autentica: politicamente e culturalmente anti-italiana, anti-nazionale, anti-meridionale e anti-romana (anche se le antiche polemiche contro ‘Roma ladrona’, dopo che Bossi e i suoi famigli sono stati pesantemente condannati per appropriazione indebita dei fondi leghisti, oggi suonano come una lezione). Si tratta, peraltro, di una sconfessione della linea ‘sovranista’, ‘nazionale’ e ‘lepenista’ perseguita invece da Matteo Salvini, che non a caso su questo referendum, al di là delle sue dichiarazioni formali, si sta impegnando molto meno dei due Governatori. Al punto che è legittimo chiedersi in che modo il risultato di questo voto, se davvero si realizzerà una vittoria a valanga dei Sì al quesito referendario, è destinato a influire sugli equilibri interni futuri del Carroccio.
Così come viene da chiedersi quali siano i benefici che il Partito democratico conta di ottenere sostenendo a sua volta, come sta facendo attraverso molti suoi autorevoli esponenti ‘nordisti’, la richiesta di una maggiore autonomia politico-amministrativa per Lombardia e Veneto. Probabilmente, sondaggi alla mano, non si vuole lasciare al Carroccio il merito di questa battaglia e il vantaggio dell’annunciata vittoria. Si punta cioè ad accreditarsi a propria volta come un partito in grado di tutelare gli interessi economico-imprenditoriali del Nord. Ma il rischio serio – lo stesso peraltro che in quest’occasione corre il M5S, anch’esso schierato per il Sì – è quello di avallare, dopo averlo inizialmente avversato, un referendum i cui frutti dal punto di vista politico-elettorale saranno comunque goduti interamente dal Lega. Invece che inseguire quest’ultima sul suo terreno per la sinistra non sarebbe stato preferibile accreditarsi come forza nazionale di governo e continuare a denunciare la strumentalità di una battaglia che dietro il paravento formale dell’autonomismo sembra coltivare l’obiettivo non dichiarato dell’indipendentismo? Eppure l’esperienza dovrebbe aver dimostrato che come è penalizzante cercare di essere più populisti dei populisti, così è tempo politicamente perso mettersi a fare concorrenza diretta a chi dell’indipendenza del Nord ha sempre fatto la propria bandiera ideologica. Si rischia, in entrambi i casi, di non essere credibili e di perdere più consensi di quanti se ne guadagnino.


 
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