Gli errori dem e i voti persi sui temi caldi

di Marco Gervasoni
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Martedì 27 Giugno 2017, 00:05
Non conoscete Cernusco sul Naviglio? Eppure la cittadina lombarda è stata eretta da Renzi a simbolo della vittoria del Pd, 67 comuni contro 59. Sì, abbiamo scritto «vittoria», ma non c’è da preoccuparsi: è consuetudine del nostro Paese negare le disfatte elettorali. Oggi però sarebbe ardito celare dietro successi locali, per la verità anche assai più grandi di Cernusco, l’entità e soprattutto il significato del tracollo del centro-sinistra. Sarebbe stato più serio ricorrere, per esempio, al dato dell’astensione. Ma anche su questo, una volta analizzati i flussi, ci sarebbe poco da sorridere.

Come si può leggere nelle altre pagine, il rifiuto del voto questa volta ha colpito prevalentemente a sinistra. Mentre i consensi degli ex elettori berlusconiani e soprattutto leghisti sembrano tornati al centro-destra, dopo aver pascolato per qualche tempo nei prati di Grillo, quelli degli ex elettori progressisti che avevano scelto nel recente passato i 5 stelle, domenica hanno invece ingrossato le fila dell’astensione. Un segno di insoddisfazione nei confronti dell’offerta politica, tanto più preoccupante per il Pd se pensiamo che proviene da un elettorato più mobilitato degli altri.

Né si può dire che, da nostalgici impenitenti del vecchio Pci o dell’ulivo d’antan, gli astensioni abbiano schifato candidati emblemi del nuovismo renziano. Nella maggior parte dei casi le alleanze dei candidati perdenti comprendevano infatti tutto l’arco variegato della sinistra; e non solo politicamente, ma anche antropologicamente, spesso i loro volti, prima delle loro parole, evocavano uno scenario da rosso antico. Per questo, agli occhi dei moderati e dei conservatori, che intorno al 2014 per qualche tempo avevano guardato con interesse all’esperimento Renzi, i candidati del centrosinistra sono apparsi come i narratori della consueta storia.

Invece di dedicarsi ai problemi concreti, molti di loro hanno seguito un’agenda nazionale tutta fondata sul «diritto di avere diritti», nuova religione secolare, come propugnata dall’appena scomparso Stefano Rodotà. Così ecco lo ius soli come slogan, gli inviti ad accogliere più migranti possibile, le marce come quella di Milano capitanata da Sala, l’esaltazione dei vari Pride, il disinteresse e quasi il disappunto nei confronti delle paure dei cittadini, fino alle accuse di razzismo rivolte a chi, con argomenti ragionevoli, metteva in dubbio la costruzione di una moschea a Sesto San Giovanni. Per chiudere con il patetico appello finale del candidato Pd di Genova a sbarrare la strada a quello del centrodestra, Bucci, in nome di «fermiamo i barbari».

Si è visto con quale risultato. Infatti, ancorché essere dei barbari, i vincitori del centrodestra erano meglio attrezzati per rispondere alle attese dell’elettorato moderato: esponenti in molti casi del mondo delle professioni, estranei alle macchine politiche, hanno condotto campagne pragmatiche e all’ascolto dei cittadini. Non a caso al Nord l’unico candidato del centrosinistra a vincere è stato quello di Padova: un imprenditore e non un uomo di apparato.
Sta qui il significato del risultato di domenica: senza voler enfatizzare o dedurre previsioni, esso dimostra, almeno per il momento, l’appannamento del disegno renziano, consistente nel convincere i moderati. Il Pd sembra incapace di uscire dal solito, tradizionale, circuito post-comunista e democristiano di sinistra, per di più ristretto rispetto a un tempo; e in difficoltà nel coinvolge il nord, l’area produttiva e dinamica del Paese, dove anzi perde in territori dove aveva sempre governato. Anche la sua base sembra essere sempre più radicata nel Mezzogiorno e (sia pure a fatica) nel Centro. Non un buon viatico per il suo futuro, anzi, un campanello del declino. A meno che Renzi non ritrovi lo spirito dei suoi inizi.

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