Il conto salato dei democrat tra primarie e candidati

di Stefano Cappellini
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Lunedì 15 Giugno 2015, 23:14 - Ultimo aggiornamento: 17 Giugno, 17:09
Delle sconfitte rimediate dal Pd tra regionali e comunali colpisce l’equa distribuzione tra le correnti: ha perso la renziana ortodossa Raffaella Paita in Liguria, la neorenziana Alessandra Moretti in Veneto, il dissidente Felice Casson a Venezia, l’aclista Matteo Bracciali nella Arezzo del ministro Boschi e l’oppositore Vladimiro Crisafulli nella Enna feudo di Gianni Cuperlo all’ultimo congresso democratico. Per giunta, tutti i candidati, Moretti esclusa, erano baciati dal favore del pronostico.

Le ragioni del passo falso sono evidentemente molteplici e non riconducibili alla vulgata propagandistica con cui ciascuna fazione del Pd cerca di addebitare il conto all’altra (“Colpa dei frenatori”, sostengono i renziani; “Colpa delle politiche del governo”, ribattono gli anti). Certo, resta il 5-2 delle regionali ad attutire il colpo, ma quando un partito perde in territori storicamente amici e con qualunque faccia si presenti, il problema si annuncia profondo.

Il premier potrebbe ancora rifugiarsi dietro la trincea scavata primo del voto: “Non è un test su di me”. Può avere ragione, ma a essere chiamato in causa da questi risultati è, prima ancora che il Renzi presidente del Consiglio, il Renzi segretario del Pd. Un Pd che si è presentato a questa tornata elettorale in ordine sparso, dando la sensazione che la sua variopinta carovana di candidati fosse figlia di un partito in autogestione più che del fisiologico pluralismo interno. Lo dimostra l’atteggiamento bipolare (in senso clinico, non politico) su uno dei temi chiave della campagna elettorale, il curriculum giudiziario dei candidati. Anche qui il ventaglio delle scelte Pd era molto ampio: in campo l’indagata Paita e il giustiziere Casson, l’ex pm Emiliano e il condannato De Luca. La comunicazione ufficiale ha cercato di trovare un senso a questo disordine - la linea garantista in Liguria, la priorità alla sovranità popolare in Campania, la necessità del repulisti a Venezia - ma la verità è che un senso non c’era e l’unica linea che accomunava i candidati era il fatto di essere stati scelti con le primarie. E qui sta un punto chiave della faccenda. Non perché si tratti di attribuire alle primarie la spiegazione della sconfitta: l’impressione è che alcuni candidati avrebbero perso anche se scelti in altro modo. Ma un partito dovrebbe assumersi in pieno la paternità di alcune scelte, cosa che aiuterebbe anche a capire le ragioni dell’eventuale fallimento. E invece le primarie si sono trasformate in un gigantesco scarico di responsabilità. Anziché scegliere una linea e difenderla, la soluzione di ogni briga è affidata alla lotteria di queste disfide locali, spesso regolate da furiose guerre per bande che, come in Liguria, lasciano alle spalle solo rovine. A decidere sulla candidatura De Luca avrebbe dovuto essere un criterio nazionale o la filiera di consenso regionale? Per ricostruire a Venezia era più opportuno affidarsi alla risposta emotiva della base dopo uno scandalo giudiziario o valutare le chance di un candidato capace di allargare il consenso? Lungo è l’elenco dei pasticci provocati da questo totem di democrazia diretta (ricordate Napoli?) che, non a caso, fu introdotto in Italia perché occorreva legittimare una candidatura esterna ai partiti come quella di Romano Prodi. Ma il Pd rivendica di essere nato proprio per superare l’anomalia di quella stagione - partiti deboli senza candidati autorevoli - e oggi delegare ai gazebo alcune scelte strategiche non è segno di apertura bensì di abdicazione rispetto al proprio ruolo politico. Non produce partecipazione, al contrario la svilisce, anche perché non si vede per quale ragione un cittadino dovrebbe prendere una tessera che non gli restituisce alcun diritto in più, anzi qualcuno in meno, rispetto a chi può presentarsi una volta all’anno ai gazebo.

Renzi è diventato segretario anche sull’onda di una battaglia per primarie aperte. Sa bene però che a incoronarlo leader del Pd non è stato l’allargamento della base elettorale: è stato il fallimento di chi lo ha preceduto alla guida. Il problema delle primarie non è dove porre il confine tra aventi diritto e no, ma stabilire una volta per tutte quando ha senso utilizzarle e quando no. Valuti dunque ora il presidente del Consiglio se e quanto alcune misure del governo possano aver scontentato un pezzo di opinione pubblica, ma valuti soprattutto se può permettersi ancora a lungo di essere leader di un Pd leggero come questo, commissariato sul territorio dal signorotto locale, dalla lobby d’opinione o dall’ex pm di turno.