Il diktat del Pd a Padoan: niente tasse, ora crescita

Il diktat del Pd a Padoan: niente tasse, ora crescita
di Marco Conti
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Martedì 28 Marzo 2017, 07:54
L'ipotesi di un pacchetto di misure a favore delle zone terremotate in grado di abbassare il peso della manovra correttiva, fa tirare sospiri di sollievo in casa Pd. Niente aumenti di tasse o di accise ma, come preteso da Matteo Renzi, negoziato anche duro - se occorre - con Bruxelles. Il pressing dell'ex presidente del Consiglio, nonché candidato alla segreteria del Pd, è ormai quotidiano. Tra enews, interviste e interventi nei circoli del Pd, Renzi continua a dettare la linea anche se nega contrasti con il ministro dell'economia Pier Carlo Padoan al quale rinnova «stima ed amicizia».
IPOTESI
Ancor meno problemi Renzi sostiene di avere con Paolo Gentiloni. Ieri il presidente del Consiglio, incontrando i presidenti di Regione, ha sostenuto che «ci sono norme e vincoli europei che non dobbiamo dare per intoccabili» e che «c'è un margine di negoziato. Certamente da qui all'autunno - ha aggiunto - la discussione con Bruxelles sarà aperta e potrà produrre risultati, sapendo che da un lato dobbiamo mantenere gli equilibri, dall'altro dobbiamo ottenere una cornice europea più realistica». Musica per le orecchie dei parlamentari del Pd che la prossima settimana incontreranno il ministro dell'Economia Padoan per un confronto sul Documento di economia e finanza (Def) che dovrebbe vedere la luce entro il 10 aprile.

Resta per ora il fatto che tutte le ipotesi iniziali di correzione dello 0,2% chiesto dall'Europa, circa 3,4 miliardi, sono tornate nei cassetti del Mef e si sta procedendo in tutt'altra direzione cercando di accompagnare la necessaria correzione finanziaria a misure per lo sviluppo. Tagli alla spesa pubblica, recupero dell'evasione fiscale e investimenti nelle zone colpite dal sisma. Un pacchetto che non sarà facile far digerire alla Commissione Ue e che rischia di diventare ancor più indigesto se non accompagnato da un Def in linea con il piano di rientro dal debito previsto dal fiscal compact. Scongiurare con la manovra correttiva la procedura d'infrazione è il primo obiettivo del governo e la convinzione che «l'accordo si troverà», come sostiene Romano Prodi, deriva anche dalla consapevolezza che «non c'è interesse in Europa a mettere l'Italia in un angolo». «Tagliare l'evasione e la spesa pubblica», sostiene l'ex premier e ex presidente della Commissione Ue, sono infatti i due pilastri che reggono la manovra di correzione dei conti e che saranno centrali anche nel Def.

Il tutto, compreso il rapporto da tenere con l'Europa, è ormai divenuto oggetto dello scontro interno al Pd in vista delle primarie e non rende certamente meno facile il lavoro di Padoan. Ieri Renzi ha attaccato i suoi predecessori a palazzo Chigi sostenendo che è «evidente come i momenti in cui i conti sono peggiorati sono quelli dei governi Berlusconi, Monti e Letta». Immediata la difesa di Orlando: «Ringrazio Enrico per l'appoggio. Una personalità importante che ha guidato il Paese in un momento non facile». Poi l'affondo contro Renzi: «Condivido la critica all'austerità dell'Ue» ma «poi serve passare a una proposta politica e costruire un campo di forze e di soggetti che siano in grado di mantenere quella piattaforma». Non è da meno Michele Emiliano che critica l'assenza di risorse per il Sud, mentre Francesco Boccia attacca Renzi per aver speso la flessibilità concessa da Bruxelles in bonus.

LACRIME
Se queste sono le premesse, a settembre rischiano di aumentare a dismisura le incognite sulla legge di Bilancio. Il Pd a trazione renziana non intende votare misure che non diano prospettive di crescita al Paese, ma in autunno si parte da meno venti miliardi visto che si dovranno coprire le clausole di salvaguardia cercando di evitare aumenti di tasse o nuove imposte. Un percorso ad ostacoli che inizia oggi con l'elaborazione del Def, ma che dopo la probabile riconferma di Renzi alla segreteria del Pd, potrebbe farsi ancor più in salita. L'ex premier e, forse di nuovo segretario del Pd, non intende ripetere l'errore che nel 2013 costò a Bersani la vittoria alle elezioni. Ovvero andare al voto dopo una manovra lacrime e sangue perché «ce lo chiede l'Europa».
 
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