Dialogo tra religioni/ Bene l’abbraccio ma il governo ora favorisca “tavoli d’intesa”

di Franco Cardini
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Lunedì 1 Agosto 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 08:34
È un po’ doloroso doverlo affermare in un contesto come quello che stiamo qui evocando, ma talvolta è proprio vero che “non tutto il male viene per nuocere”. Quello che molti ritenevano più o meno impossibile e qualcuno un miracolo, è accaduto. Con gioia, lo dico senza mezzi termini, di quel non amplissimo gruppo di persone che - ne faccio parte anch’io - da molto tempo, e con tutta la forza di cui è capace, afferma che lo “scontro di civiltà” non esiste e che cristiani, laici e musulmani possono ben camminare insieme sulla via della convivenza e della reciproca comprensione.

Gli appelli del papa, del clero soprattutto francese e di molte personalità dell’Islam europeo - quell’Islam che esiste pur fra differenze e difficoltà, e che deve farsi sentire sempre di più - hanno avuto effetto: il sangue versato da padre Jaques Hamel nella chiesa di Saint-Etienne de-Rouvray presso Rouen, ma anche quello delle vittime di Nizza, di Monaco, di Ansbach, di Würzburg, non è stato vano. Ha investito le coscienze come un colpo di frusta. I soliti miopi hanno invocato “risposte spietate” (non si sa contro chi), ma sono stati moltissimi - appunto cristiani, laici, musulmani - a reagire con lucida serenità: così non si può andare avanti, la risposta di tutte le persone di buona volontà dev’essere corale e compatta. L’ultimo giorno del sanguinoso luglio 2016, era domenica: e, com’era giusto, è stato giorno di preghiera.

A Parigi, nella cattedrale di Notre Dame, cattolici e musulmani hanno pregato insieme per la pace. E Dalil Boubaker, presidente del Consiglio Francese del Culto Musulmano e rettore della grande moschea parigina, ha commemorato commosso il martirio di padre Jacques. Lo stesso stava facendo attorniato da cattolici, da musulmani e da gente che non era l’una cosa né l’altra ma era commossa e rispettosa, nella popolare banlieue della Goutte d’Or, il rettore della moschea locale Muhamad Salah Hamza. La stessa cosa è accaduta, su invito della Chiesa francese e degli imam di varie città, in una quantità di chiese di Francia.

Sono stato personalmente testimone di come in un piccolissimo santuario mariano della Dordogna la comunità musulmana locale, una decina di algerini e di marocchini in tutto (di cui sei tra bambini e ragazzi e due donne) sia stata letteralmente festeggiata all’uscita della Grande Messe dalla gente del posto. Perché anche loro, integrati e cittadini francesi, sono gente del posto.
 
E poi, l’Italia. Già ci era giunta, da Cracovia, la voce del cardinal Bagnasco, che parlava di «reazione corale» e di «percorso nuovo». Una pronta conferma alle sue parole è arrivata dalla basilica romana di Santa Maria in Trastevere, dove la Comunità di Sant’Egidio aveva formalmente invitato alcuni imam italiani a unirsi alla preghiera dei fedeli cattolici. A Ventimiglia è successo lo stesso attorno al coraggioso padre Francesco Marcovaldi, quello che giorni fa aveva aperto la sua chiesa ai senzatetto extracomunitari ai quali la municipalità aveva negato il diritto a improvvisare un accampamento di fortuna. Lì una donna musulmana, toltasi il hijab (il velo rituale che copre capelli e collo delle musulmane osservanti) “per rispetto ai cristiani”, ha recato la sua testimonianza: aggiungendo che, quando passa per strada con la testa coperta, c’è sempre qualcuno che le grida dietro «terrorista!».

È sperabile che qualcuna di quelle persone, vedendo quanto sta accadendo, si vergogni di quella parola. Ma alla musulmana di buona volontà va peraltro spiegato che il hijab non offende affatto i cattolici: le nostre donne portavano in chiesa fino a pochi decenni fa un velo simile ad esso, e qualche anziana signora lo fa ancora. Perché abbiamo lo stesso Dio, che gli ebrei chiamano Elohim e Adonai e i musulmani Allah; perché siamo tutti figli della promessa di Dio al patriarca Abramo; perché i buoni musulmani potrebbero recitare con i cristiani tutto il Pater Noster, omettendo solo appunto la parola Pater in quanto l’Islam ritiene che Dio sia sì Creatore, non però “Padre” in quanto la generazione è da essi considerata atto propriamente materiale, quindi estraneo a Dio in quanto Ruakh, “Spirito”; ancora, i musulmani potrebbero recitare con i cristiani tutta la prima parte dell’Ave Maria (non la seconda, certo, che evoca la maternità di Dio); e i cristiani potrebbero recitare con i musulmani per intero la giaculatoria in onore del Nome di Dio, la Basmalah (Bismillah ar-Rahmani ar-Rahim, «Nel Nome di Dio, Il Clemente, il Misericordioso»: io lo faccio ogni mattino appena sveglio, dopo aver recitato il Gloria Patri) e la prima metà della shahada, la testimonianza di fede (La ilaha ilà Allah, «Non c’è altra divinità se non Dio»).

Ebrei, cristiani e musulmani sono figli del medesimo Dio e fratelli in Abramo. Il comandamento di amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi vale, nella sostanza, per tutti loro: Bibbia, Vangelo e Corano lo confermano. E, se si mette Dio tra parentesi, gli agnostici non possono non riconoscersi nella seconda parte di esso: la sostanza dell’umanitarismo laico è quella. Siamo tutti insieme: rien que l’humanité.

E il miracolo di Parigi, di Roma, di Ventimiglia, si è verificato in infinite chiese e cattedrali italiane: da Milano a Napoli a Palermo. C’è da sperare che si ripeta ancora, domenica prossima, e magari anche nei giorni feriali. E che non si limiti alle chiese. Moschee e case di preghiera musulmane sono aperte ai cristiani, che vi vengono dovunque fraternamente accolti: basta che lo vogliano. E lo stesso vale per le sinagoghe. Ne sono personalmente testimone. Ognuno, certo, deve pregare secondo la sua tradizione: niente sincretismo. Ma si può pregare insieme, testimoniare insieme la stessa fede nel medesimo Dio. Un Dio di pace: anche se i cristiani amano sottolineare come tale pace sia anzitutto perdono, mentre ebrei e musulmani preferiscono porre l’accento sulla pace come giustizia. Ma che la pace non sia solo assenza di guerra, che la pace sia anzitutto giustizia e comprensione reciproca, quindi perdono, su questo siamo tutti d’accordo.

La novità non sta soltanto in quel ch’è accaduto. C’è di più: e di meglio. Da molto tempo rimbalzava sui media la domanda spesso angosciosa, talora provocatoria: «Ma perché i musulmani non si fanno sentire contro il terrorismo?». Non era vero. Nelle comunità musulmane se ne parlava eccome, nei paesi islamici e fuori. Le condanne erano molte e chiare: non c’era solo la Fatwa dell’Università cairota di al-Azhar. C’erano anche esternazioni pubbliche e manifestazioni: ma nulla o quasi arrivava sui nostri giornali e sui nostri teleschermi. Era solo distrazione? Si pensava che “non facesse notizia”? Si temeva “per motivi d’ordine pubblico”? Non saprei. Certo è che molte di queste testimonianze sono state raccolte da un gruppo di studiosi guidati dal professor Paolo Branca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in un libro prezioso, Islam plurale, edito dalla Guida di Napoli. Ora chi vuol sapere ha lo strumento adatto per informarsi.

Ma chiese, moschee, fedeli, opinione pubblica, non bastano. Deve muoversi il governo. Da troppi mesi il progetto di creare “tavoli d’intesa” tra tutte le comunità musulmane italiane e l’autorità governativa italiana è fermo. Se ne dà ufficialmente la colpa al fatto che le due associazioni cui le comunità afferiscono, la Ucoii e la Coreis, sono in disaccordo tra loro. Si tratta di un alibi umiliante e ridicolo. Il governo ha tanto il diritto quanto i mezzi per costringere le due associazioni a trovare un’intesa e, in mancanza di ciò, per convocare direttamente le singole comunità: è necessario stipulare un accordo chiaro e stupefacente, come esiste non solo - ovviamente - con la Chiesa cattolica, ma anche con le comunità ortodosse, riformate ed ebraiche. Il momento storico lo richiede con urgenza.

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