Craxi, perché resta un tabù la figura del modernizzatore

di Marco Gervasoni
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Venerdì 19 Gennaio 2018, 00:03
Bettino Craxi è morto il 19 gennaio di diciotto anni fa ma il suo fantasma continua a perturbare la nostra memoria. Vedi, in questi giorni, le dichiarazioni degli sdegnati che il Comune di Sesto San Giovanni gli abbia dedicato una via. Per gli antichi Greci, quando l’anima di un defunto continua a apparire ai viventi, significa che gli Dei vogliono comunicare qualcosa. Almeno tre ci sembrano i segnali che Craxi continua a lanciarci. Il primo: la cosiddetta Seconda Repubblica è nata come un vulnus e una forzatura, provocando una lacerazione del paese che questo carattere diviso ha poi sempre mantenuto. Per questo il sistema politico è stato sempre instabile e forse ora sta deperendo con la stessa ambiguità con la quale è nato. Non che la «Prima Repubblica» fosse il regno della virtù, tutt’altro.

Ma le sue degenerazioni vanno spiegate con la forma particolare che nel nostro paese, insieme alla Germania federale il più coinvolto nella guerra fredda, aveva assunto la lotta politica. Il grande errore dei suoi dirigenti fu di non aver capito in tempo che, caduto il Muro di Berlino, nulla poteva essere più come prima. Di questa classe politica Craxi fu uno degli uomini migliori, nelle luci e nelle ombre, nella capacità di intuire i processi politici e di trasformare il paese, come negli errori e nelle illusioni; e soprattutto nella difficoltà a comprendere, alla fine, che bisognava mutare tanto e in profondità. Da qui i processi, due dei quali conclusi con condanne definitive e la responsabilità di non aver fermato il sistema marcio quando si era ancora in tempo: difficile però non vedere che fu uno dei pochi a pagare, pur avendo denunciato in solitudine la pratica del finanziamento illecito ai partiti. 

Il secondo segnale che dal passato Craxi ci trasmette è questo: è molto difficile, quasi impossibile, essere modernizzatori in Italia. Il tratto che infatti racchiude meglio la figura di Craxi sta nella sua volontà di sbloccare il paese, nell’esigenza di superare gli steccati, nella convinzione che le vecchie divisioni, figlie di un tempo ormai finito, debbano essere lasciate alle spalle. Per questa sua vis modernizzatrice, soprattutto in campo economico (le riforme del mercato del lavoro), e in quello istituzionale (il superamento del sistema consociativo e il presidenzialismo) mobilitò contro di sé numerosi nemici: non solo il Partito comunista, anche molti suoi alleati di governo nella Dc e poi un certo establishment, a cui accomodava il sistema corporativo su cui la Repubblica si era adagiata dagli anni Sessanta.

Non ha molto senso tracciare analogie storiche; ma dopo di lui, tutti quelli che si sono impegnati in un progetto modernizzatore, pensiamo a Berlusconi ma anche a Renzi, sono finiti demonizzati, come lo fu Craxi a suo tempo. «Ho provato per la prima volta lo squadrismo sulla mia pelle», disse poche ore dopo l’assalto con le monetine, il 30 aprile 1993. In realtà egli fu la vittima di una composita folla proto-populista: i post-comunisti e i missini, mentre i leghisti agitavano il cappio a Montecitorio. Il terzo segnale che Craxi ci lancia è il seguente: non dimentichiamo la nazione. Egli fu infatti un protagonista dell’integrazione europea (con l’Atto unico del 1986). Ma vide, quasi profeticamente, al momento della firma del trattato di Maastricht e poi negli anni di Hammamet, quanto non funzionasse in quest’Europa. E temeva che quelli al potere in Italia non sarebbero riusciti (o non avrebbero voluto) perseguire l’interesse nazionale. Come invece egli si era sempre prodigato di fare: nella memoria di molti resta impressa la vicenda di Sigonella, quando difese le prerogative dell’Italia anche di fronte alla potente America di Reagan. Sono lezioni che tutte le forze politiche dovrebbero ascoltare. Poco disposti a recepirle sembrano però essere molti della sinistra. Per loro, salvo eccezioni (autorevoli, ma eccezioni) il nome di Craxi è ancora tabù. Eppure alla sinistra riformista egli apparteneva: fu tra i fondatori del Partito socialista europeo, di cui il Pd fa parte. Una volta per tutte quella famiglia politica dovrebbe riconoscere che Craxi è uno dei pezzi più pregiati della sua storia.
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