Quando donò la prima rosa rossa

Quando donò la prima rosa rossa
di Renato Buzzonetti
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Venerdì 17 Ottobre 2014, 16:36 - Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 17:00
Era l’alba di sabato 4 novembre 1967. Quella mattina Il Messaggero uscì con uno scoop strabiliante, annunciando l’imminente operazione chirurgica di Paolo VI in Vaticano.



Sotto al titolo venne pubblicata la foto dei tre protagonisti del primo intervento chirurgico nella storia del Palazzo Apostolico vaticano: Pietro Valdoni, chirurgo della Sapienza, Mario Arduini, urologo del San Camillo e Mario Fontana. A questi illustri clinici si affiancavano Pietro Mazzoni, anestesista, il chirurgo Giulio Bolaffio, il cardiologo Alberto Fantera ed il giovane anestesista Corrado Manni. Di lì a qualche ora l’équipe medica avrebbe sottoposto papa Montini all’intervento. Era la prima volta che una camera operatoria in piena regola veniva allestita tra le mura vaticane ed al servizio di un Papa.



Il mio coinvolgimento iniziò il mattino di mercoledì 6 settembre di quell’anno, quando il professor Fontana, medico personale del Pontefice, mi convocò d’urgenza a Castel Gandolfo per recapitare una sacca di sangue, che doveva essere trasfusa a Paolo VI a seguito dell’ematuria avvenuta nelle ore precedenti. Quella chiamata fu per me una inattesa sorpresa e segnò una svolta decisiva nella mia esistenza.



La camera operatoria fu allestita al terzo piano del palazzo apostolico, quello abitato dal Papa; furono pressoché isolate le grandi stanze, che ospitavano un grande apparato radiologico fin dai tempi di Giovanni XXIII ed una saletta per proiezioni cinematografiche. Dall’alto di una parete un grande crocifisso in avorio vigilava sul tavolo operatorio. Tutto fu fatto con grande cura secondo i protocolli più moderni e sicuri e, con buona pace di qualche inavvertito critico, non ci si limitò a «innalzare un tendone bianco» descritto in qualche fantasiosa cronaca.



A me fu affidato il compito dell’acquisto delle attrezzature sanitarie. Per garantire il segreto, si provvide a versare sul mio conto corrente personale la somma necessaria ed il materiale entrava in Vaticano indirizzato alla mia persona. La spesa fu di 2 milioni di lire. L’arredamento sanitario e gli apparecchi furono poi regalati alla Direzione dei Servizi Sanitari del Vaticano ed alle Missioni. A causa della scoop del Messaggero, non fu però evitato l’assalto dei media a livello mondiale.



Prima dell’intervento, Paolo VI, a letto, indossò la stola e ascoltò la messa celebrata in latino. Poi papa Montini dispose: «procedamus in nomine Domini…»

L’intervento iniziò alle ore 8 e si concluse dopo circa 45 minuti. Come ferriste furono chiamate due Suore della Clinica Sanatrix. L’entourage pontificio, che conosceva la delicatezza di Montini, esitò prima di ammettere le due donne, seppur consacrate, al diretto servizio dell’infermo. Altri tempi!



Il bollettino medico ufficiale fu letto ai giornalisti dal Sostituto alla Segreteria di Stato, Benelli. Ma ormai la notizia era già di pubblico dominio. Il dottor Ugo Piazza, medico, devoto amico di Montini dai tempi del loro impegno nella Fuci e collaboratore dell’Osservatore Romano, era stato ammesso a sostare nell’anticamera operatoria. Appena concluso l’intervento egli non riusci a frenare il suo istinto di buon giornalista ed informò direttamente il direttore Raimondo Manzini che non esitò a lanciare la notizia.



La sera di quello stesso giorno iniziò per me la più straordinaria e lunga udienza pontificia della mia storia, che ebbe termine il 30 novembre successivo.



Oltre a non pochi turni diurni, fui infatti incaricato di assistere il Santo Padre nelle ore notturne. Furono circa venti notti, che segnarono profondamente la mia personalità ed il mio cuore. Paolo VI aveva un comportamento molto riservato e gentile, paziente ed umile.



Nel suo semplice letto, riposava e dormiva con frequenti intervalli di veglia, cercando di mettermi a mio agio con brevi colloqui sulla mia famiglia e sul mio lavoro; aveva imparato il nome dei miei figli che spesso citava, mi ricordava i tempi della sua vita universitaria alla romana Sapienza, mi confidava con fugaci accenni le sue preoccupazioni pastorali, evitava di affrontare o sfiorare problemi complessi, si scusava per il disturbo, a suo giudizio, recatomi. Le sue parole spesso non erano prive di un sottile umorismo o di sfumature ottocentesche.



A volte, d'improvviso accendeva la luce per scrivere un nome o un pensiero su un tavolino mobile, oppure mi domandava «sa il Magnificat?» e mi invitava a recitarlo con lui.



Spesso si raccoglieva in silenziosa preghiera e, rivolto verso la vicina finestra, tracciava una benedizione verso la città di Roma. Il 30 novembre volle invitare l'équipe medica alla celebrazione di una messa di ringraziamento nella cappella dell’appartamento privato.



In precedenza il Segretario don Macchi mi aveva confidato la sua curiosa intenzione di usare, secondo il rito bizantino, un cucchiaino d’oro per la comunione del vino eucaristico. Il piccolo oggetto sarebbe stato un ricordo prezioso dell’evento. Io non mi feci scrupolo di osservare che non poteva essere previsto il numero di coloro che si sarebbero accostati all’Eucarestia con conseguente imbarazzo delle persone, che non avrebbero fruito del singolare dono.



In realtà la partecipazione fu totale in un clima di grande commozione. E per tutti fu riservato dal Papa un altro dono, una breve allocuzione, scritta di suo pugno e letta al termine del rito ai piedi del grande Crocifisso di Enrico Manfrini. Il testo non è mai stato integralmente pubblicato sino ad oggi. Al termine della mattinata, congedati gli altri medici, rimasi solo per riordinare il materiale sanitario, quando alla porta della stanza bussò Paolo VI.



Voleva invitarmi a pranzo e consegnarmi un dono, una scatola di legno di sandalo, offerta a lui dai salesiani di Bombay nel suo viaggio apostolico in India del 1964. Mi disse: «Questo dono è per sua moglie, alla quale l'abbiamo sottratto per tanto tempo». Nella scatola c'era una rosa rossa. Il Papa l'aveva presa dal piccolo vaso di fiori che abitualmente ornava il ritratto dei suoi genitori, sul cassettone della sua camera da letto. Mi informai: a memoria del Segretario Macchi, che viveva al suo fianco dal 1955, era la prima volta che Montini inviava un fiore ad una signora. A sera, al termine della più lunga «udienza privata pontificia» della mia vita, tornai a casa senza un cucchiaino d’oro, ma con la rosa del Papa.
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