Quella capacità di vedere lontano

Quella capacità di vedere lontano
di Franco Marini
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Giovedì 16 Ottobre 2014, 15:01 - Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 16:58
«Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro».



Con queste parole, il 21 aprile del 1978, Paolo VI apriva il suo vibrante appello per una soluzione non traumatica del rapimento dello statista democratico-cristiano. Tanti colsero solo il lato umano e pastorale del messaggio lanciato da Papa Montini in una situazione assai tesa. La politica e lo Stato, pur avendo cercato trattative riservate, non volevano cedere al ricatto brigatista, ma esprimevano anche tutta la frustrazione e l’impotenza per l’inefficacia della linea della fermezza.



Si andava consumando, in realtà, un dramma politico ben più profondo: la crisi della Democrazia cristiana e del suo gruppo dirigente, la fragilità della stessa democrazia italiana anche per i suoi condizionamenti internazionali derivanti ancora dalla tragedia nazifascista e dall’assetto internazionale del dopoguerra. Le parole del Pontefice non segnavano solo lo sforzo pastorale di accostarsi ad un fenomeno ancora oscuro e agghiacciante, ma evidenziavano tutta la sua possente concezione dottrinaria e politica, capace di guardare ben oltre il dramma presente e di indicare la via maestra della ricostruzione morale e sociale.



Paolo VI veniva da lontano. Avendo percorso tutto il Novecento, e le sue enormi contraddizioni, indicava chiari punti di riferimento. Perciò chiedeva anzitutto di restituire Moro alla libertà, ovvero ad una condizione spesso evocata nelle ideologie contemporanee, ma mai pienamente perseguita con tutte le sue conseguenze e responsabilità.



La libertà perciò come primo valore fondante della società. Seguiva poi il richiamo alla funzione della famiglia. Non c’era niente di moralistico nelle parole del Papa, ma solo la sottolineatura della consistenza naturale della comunità familiare, intesa nella libertà e, diremmo oggi, anche nelle diverse forme e circostanze esistenziali.



La vita civile, comprensiva anche della stessa sfera politica, era il terzo ambito richiamato nella lettera, come dimensione basilare della vita comune, della vita associata, come riferimenti cardine per la stessa espressione della libertà. In questi pilastri essenziali si racchiude il pensiero politico di Papa Montini, la sua visione lunga e ampia dei grandi processi nei quali era cresciuto anche il nostro Paese e tutto il complesso quadro internazionale. Una politica che non era tutto, un assoluto ideologico, ma essenzialmente l’impegno costante e fattivo al perseguimento del bene comune.



L’impegno di Montini fu all’origine della migliore classe dirigente cattolica, a partire dal 1925 tra gli studenti universitari della Fuci e poi con i laureati di azione cattolica: esperienze associative sostanzialmente indenni dalla contaminazione fascista e capaci di formare quella straordinaria generazione politica che guidò l’Italia dopo il conflitto.



La sua ispirazione favorì, nel luglio del 1943, l’elaborazione del Codice di Camaldoli, un patrimonio di idee preziose per la rinascita produttiva e civile. Il suo rapporto con De Gasperi e con la nascita della Democrazia cristiana fu leale e forte, nella libertà di un progetto politico storico e non in una gabbia di ideologia integralista.



Considerava quella come la forma migliore per portare l'Italia fuori dalle rovine civili e morali del Fascismo, e per ricostruire la Nazione dalle macerie fisiche della guerra. Chiara era la necessita della pace come bene superiore, da perseguire con lungimiranti politiche europee e internazionali, come strada maestra per riportare nel Paese la vita democratica e per favorirne la crescita economica e sociale.



Paolo VI ebbe la forza spirituale e carismatica di condurre il Concilio Vaticano II alla sua conclusione con l’approvazione di straordinari documenti comuni. Ma la sua personale visione sociale e politica aveva basi assai profonde ed esistenziali. Quando nel 1954 divenne arcivescovo di Milano dedicò una eccezionale attenzione al mondo del lavoro e alle condizioni dei lavoratori. Pur essendo un raffinato studioso e intellettuale presto lo chiamarono “arcivescovo dei lavoratori”.



Per questa sua sensibilità, nel 1969, divenuto Papa, decise di andare a Ginevra per celebrare il 50° anniversario della nascita dell'Ufficio internazionale del lavoro.



Le sue encicliche furono dedicate principalmente al rilancio della Dottrina sociale. Con la Populorum Progressio si soffermò sugli squilibri profondi e le gravi ingiustizie nel mondo, sfidando gli spiriti conservatori sulla necessità di un uso sociale della proprietà privata per dare risposte a bisogni enormi e gravi dell’umanità.



Nel 1971, con l’Octogesima adveniens, volle rilanciare le basi stesse del pensiero sociale cristiano ricordando la Rerum novarum, la grandiosa enciclica di Leone XIII che, nel 1891, aveva posto al centro dell’azione della Chiesa la ricerca costante di un solido equilibrio tra le ragioni dello sviluppo economico e del profitto e quelle della giustizia sociale. In un mondo ormai molto cambiato Paolo VI affermò coraggiosamente che “una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi”, aprendo così il dibattito sulla pluralità delle opzioni politiche dei cattolici.



L’intera vita di Paolo VI, oltre che il suo magistero di pontefice, attesta la centralità da egli affidata alla politica che, non a caso, con parole spesso ricordate, definì “la più alta forma di carità”. Certo il Papa si rivolge ai cristiani ma non si fa fatica a notare l’universalità del richiamo. Solo la politica può consentire la costruzione di una società giusta, dove tutti, e non solo i più forti e i più capaci di tutelare i propri interessi, possano vivere nella libertà e nel benessere.



E la politica evoca la partecipazione, l’impegno corale, la possibilità di essere soggetti attivi della cosa pubblica non certo distratti spettatori delle decisioni di uno o di pochi: questo il nucleo dell’insegnamento cristiano che mai va rimosso anche quando non per colpa della politica, semmai dei politici, alcune stagioni sono o sono state grigie e sconfortanti.



La forza di Paolo VI fu sempre nella sua capacità di vedere lontano. Per questo stimava profondamente Aldo Moro, anch’egli dotato di visione lunga e penetrante. Moro era attento e profondo nell’analisi della realtà; da questa muoveva poi la sua capacità di proposta politica. Poco prima della sua tragica fine, avendo chiari i limiti dell’esperienza politica della DC, aveva cominciato a delineare la possibilità concreta dell’affermazione anche in Italia di una democrazia compiuta basata sull’alternanza di schieramenti.



Lo stesso Partito comunista italiano, guidato da Berlinguer, aveva percorso proprio in quegli anni passi decisivi, sposando l'atlantismo e la visione europea, e favorendo il superamento del primato ideologico del marxismo-leninismo. Fu una stagione grandiosa, di leader capaci di guardare lontano e di interpretare il ruolo dello Stato, senza complessi neoliberisti, come soggetto fondamentale dello sviluppo democratico e della crescita sociale ed economica. Paolo VI fu l’accorto e prudente regista di questa evoluzione, accompagnandola sempre con un magistero spirituale e sociale forte.
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