La verità sull’Europa? È fondata sulla crescita

di Marco Gervasoni
3 Minuti di Lettura
Martedì 21 Marzo 2017, 00:05
Quando sono in crisi, i sistemi politici e le organizzazioni nazionali e internazionali abbondano di retorica, «la cui prima regola», diceva De Sanctis, è «l’orrore del particolare e la vaga generalità»; retorica che serve per celare le difficoltà e i vuoti, ma anche per instillare energia in un corpo esangue.

Non sfuggono a questa regola la Ue e i capi di Stato che sabato si ritroveranno a Roma per commemorare i sessant’anni dalla firma del Trattato promotore la Comunità economica europea, antesignana della Ue. Nonostante la volontà di rilancio dell’incontro, da cui dovrebbe partire l’Europa «a geometria variabile», alcuni temono che esso si risolverà in un mesto festeggiamento, quattro giorni prima dell’inizio della Brexit. Nessuno dotato di una minima visione realistica potrebbe infatti negare che la Ue è una matura signora con troppi acciacchi, tanto che molti ne temono una rapida dipartita, mentre altri se lo augurano.

Chi s’inscrive nel primo gruppo, e vorrebbe salvarne il futuro, dovrebbe però cominciare a esibire un linguaggio più franco e uscire dalla retorica europeista di affermazioni ripetute meccanicamente, ma storicamente infondate. La prima, ribadita ancora pochi giorni fa da da Merkel a Trump, è che la Comunità avrebbe impedito agli europei di farsi la guerra, come invece era avvenuto nei secoli precedenti. Non è proprio così.

Tra il 1815 e il 1914 le nazioni europee si combatterono poco e la Prima guerra mondiale non fu il precipitato naturale dei «nazionalismi»: come dimostrò a suo tempo il grande economista austriaco Schumpeter, l’Europa di inizio Novecento trovò un suo equilibrio, e la guerra avrebbe anche potuto non scoppiare, se i capi di Stato dell’epoca non avessero deciso di giocare una partita di cui male calcolarono le conseguenze.

Quanto alla pace, nella seconda metà del Novecento è stata assicurata non dalla Cee ma dalla Nato e dagli Usa - pace peraltro molto relativa, visto che fino al 1991 l’Europa è stata teatro della guerra fredda. Il secondo luogo comune è che la Comunità avrebbe creato una cultura europea, laddove in precedenza dominavano i saperi nazionali. Ma una cultura europea esisteva fin dal Medioevo, ed è stata grande anche quando gli europei si dilaniavano con ferocia, come nel Seicento e nella prima metà del Novecento. Mentre oggi invece non sappiamo cosa sia una cultura europea: se a rappresentarla sono Habermas o Bauman, non proprio Kant e Croce, certo non siamo in un’età florida. Anche perché l’Europa di questi ultimi sessant’anni non è più il centro del mondo, come è stata fin dal Medioevo; e anzi rischia di diventare una periferia.

Tra i numerosi luoghi comuni della retorica europeista, solo uno è davvero veritiero: la Cee e poi la Ue, con il loro mix di liberalismo economico, fondato sull’apertura dei mercati e sull’abbattimento delle barriere, e di keynesismo, incentrato sugli investimenti comunitari, hanno stimolato la crescita dei Paesi membri. Che non sarebbero diventati così ricchi, floridi e sviluppati senza il volano rappresentato da Bruxelles. E questo non solo negli anni della Grande Crescita, tra i Cinquanta e i Settanta del secolo scorso, ma anche in quelli successivi: se Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda, i Paesi dell’Est e anche il nostro Mezzogiorno si sono modernizzati e sono cresciuti, lo dobbiamo alla Comunità. Forse non siamo diventati più liberi e più colti con l’Europa, ma certamente siamo diventati più ricchi.
Ed è da qui che bisogna ripartire: meno integrazione politica, più integrazione economica, e stabilizzare al più presto l’eurozona. Altrimenti non la guerra ci aspetta, ma certamente la miseria.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA