Le cinque ragioni per cui Donald Trump può davvero diventare presidente

di Maria Latella
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Martedì 17 Maggio 2016, 00:06 - Ultimo aggiornamento: 00:32
Sei settimane all'università di Chicago a contatto con gli studenti e i docenti dell'Institute of politics significa anche una full immersion nella campagna elettorale americana. Un po’ tutti, da David Axelrod, l'ex stratega delle due vittoriose elezioni di Barack Obama, a Mike Murphy, stratega dei repubblicani ammettono di aver inizialmente sottovalutato il fenomeno Trump. Non solo Trump è riuscito a conquistare la nomination del partito repubblicano, qualcosa su cui in pochi avrebbero scommesso, ma rischia anche di essere il candidato alla Casa Bianca di cui più' si parlerà da qui a novembre. Finora è stato così. Per cinque buone ragioni.

La comunicazione “instant”
Come ha detto il professor Larry Sabato «non puoi staccare gli occhi da lui». Donald Trump occupa quasi interamente la scena politica americana e ormai anche europea. Non c'è giorno, direi ora, in cui i media Usa si privino del brand Trump, obbligati a sputare notizie a ripetizione per star dietro a Twitter e Facebook, costretti a farlo anche quando di notizie non ce ne sono. La prima ragione del successo del tycoon newyorkese, dunque, è stata proprio la sua abilità nello sfruttare la fame dei media. Il giorno in cui proprio non c'era niente, né un comizio, né un'occasione ufficiale, Trump offriva ai siti dei grandi quotidiani e ai network tv in crisi di astinenza, la giusta dose di tweet abrasivi. 140 caratteri già pronti per fare titolo.
 
La comunicazione insulto
La prima regola che gli strateghi americani spiegano ai loro clienti politici è che insultare, in campagna elettorale, paga. Prima, anni fa, bastava attaccare, sorprendere. Funzionò per Silvio Berlusconi: annunciò che a Roma, tra Fini e Rutelli, avrebbe votato per il primo, l'erede del Msi di Almirante. Allora, nel 1993, significava violare un tabù.
Più di venti anni dopo ci vuole altro per sorprendere. Serve, appunto, la comunicazione-insulto. Terreno sul quale non tutti possono muoversi agilmente. Ci prova Matteo Salvini, per esempio. E, negli Usa, Donald Trump. Un maestro.

Un talento naturale. Un troll nato. Ha cominciato ricordando a Hillary Clinton: «Come puoi farti rispettare dagli americani se tuo marito ti metteva le corna?» E sta continuando sul filone sesso-Lewinsky. In mezzo c'è stata la fantasiosa percentuale: «Se Hillary non fosse donna la voterebbe solo il 5 per cento degli americani» e aggressioni varie a ispanici, donne e musulmani. Al tempo di Snapchat, essere telegenici e comunicativi non basta più. Serve avere una personalità. Trump ha scelto l'insulto, tecnica sperimentata all'inizio per farsi conoscere, accendere su di sé i riflettori e ora portata avanti a fasi alterne, quando non si gioca la parte del “candidato presidenziale”. La tecnica però ha bisogno di autenticità: Trump non recita. È proprio fatto così. Del resto a “The apprentice”, il talent che ha condotto per undici anni, gli piaceva moltissimo scandire la frase-mantra: “You're fired”.

La fine della meritocrazia Usa
Naturalmente il candidato Trump fonda il suo successo anche su reali bisogni di quello che è diventato il suo elettorato. Il bisogno più'avvertito? La solitudine, la sensazione di essere “left behind”, lasciati indietro. Nessun partito pensa a noi. Si preoccupano solo dei fattacci loro. Come scrive Edward Luce sul Financial Times, nell'articolo giustamente titolato “The end of American meritocracy” negli ultimi sessant'anni gli americani hanno creduto al sogno americano, all'ascensore che avrebbe consentito ai figli di fare meglio dei genitori. Oggi gran parte della middle class bianca fa i conti con la realtà: alle università più prestigiose vanno Malia Obama (Harvard) o Chelsea Clinton. I figli di hanno la strada spianata. Gli altri un futuro in cui come mi ha spiegato un docente dell'università di Chicago «se sei maschio, bianco e senza una sufficiente istruzione ci sono buone possibilità che tu rimanga disoccupato a vita». Neri e ispanici, se capaci e ambiziosi, possono sperare nelle quote. I bianchi del Midwest deindustrializzato, delusi da repubblicani e democratici, disperano e votano Trump.

L'effetto Berlusconi
L'ha scritto sul Chicago Tribune l'economista italiano Luigi Zingales, docente alla Chicago Booth Schol «To get Trump's appeal, look to why Italy elected Berlusconi». Al confronto tra i due ho dedicato il primo seminario che ho tenuto all'Institute of politcs, e in effetti Trump sta ripetendo (copiando?) tutte le mosse che nel 93-94 portarono Berlusconi al successo politico. Allora, in Italia, sembravano novità assolute. E novità sembrano oggi agli americani, sorpresi da un personaggio tv che scala sul serio un partito (Berlusconi lo creò ex novo), un miliardario populista capace di convincere i disoccupati. Quando Trump dice: «Sono ricco di mio, non ho bisogno di dipendere dal sistema di donazioni» gli credono. Salvo il fatto che ora, a un passo dalla convention, lo stesso Trump corteggia l'establishment repubblicano che tiene i cordoni della borsa. La corsa comincia a costare e senza altri investimenti non si regge fino a novembre. Ma, appunto, anche questa è una notizia. E anche per questa settimana Trump sfamerà i media.

Il non-effetto Hillary
Per restare al confronto Trump-Berlusconi, nel 2016 Hillary Clinton rischia di passare per l'Achille Occhetto di questa campagna americana. Non può sfruttare appieno l'effetto “prima donna alla Casa Bianca” perché Trump è più nuovo, irridente, strafottente di lei. A questo punto può solo sperare che gli elettori americani scelgano l'usato sicuro. Ma di questi tempi, Germania a parte, la tendenza, dall'Austria alla Spagna, sembra proprio un'altra.
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