Stati Uniti, uraniogate: soldi russi per la campagna di Hillary

Stati Uniti, uraniogate: soldi russi per la campagna di Hillary
di Fabio Morabito
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Giovedì 23 Aprile 2015, 19:54 - Ultimo aggiornamento: 25 Aprile, 19:10
Non comincia nel migliore dei modi la corsa alla Casa Bianca di Hillary Clinton. La candidata democratica ora dovrà rispondere all’imbarazzante inchiesta del New York Times, che va a battere sul solito tasto debole della famiglia Clinton: la Fondazione dell’ex presidente, straordinaria calamita di denaro. Stavolta i soldi piovuti in cassa provengono da una compagnia mineraria canadese dell’uranio (Uranium One) controllata dalla russa Armz, a sua volta controllata dall’agenzia atomica russa, la Rosatom. Difficile per gli avversari di Hillary sfuggire alla facile equazione: Vladimir Putin finanzia i Clinton. E, soprattutto, li finanzia aumentando il suo controllo su gran parte della fornitura mondiale di uranio. C’è - nell’inchiesta del New York Times e nel libro in uscita “Clinton Cash” di Peter Schweizer - molto di più. Al punto che non è fantasioso parlare di Uraniogate. La vendita di Uranium One consegna a Mosca il controllo delle miniere di Kazakhistan e un quinto della produzione di uranio negli Stati Uniti. E siccome l’operazione, in quanto tocca evidentemente interessi strategici degli Stati Uniti, doveva essere approvata da un Comitato di cui fanno parte i rappresentanti delle maggiori agenzie governative in materia di sicurezza, ecco l’altro aspetto imbarazzante. In quel Comitato, ai tempi dell’accordo, c’era anche Hillary Clinton, nel molto significativo ruolo di responsabile del Dipartimento di Stato.

Le donazioni dalla Uranium One furono quattro, per un totale di 2,35 milioni di dollari. Hillary tacque, nonostante l’accordo per la trasparenza che firmò come segretario di Stato con l’amministrazione Obama prevedesse che i contributi dovessero essere resi pubblici. E la corazzata-Clinton è travolta, ora, da tanti particolari pesanti. Come il discorso di Bill a Mosca pagato la bellezza di mezzo milione di dollari da una finanziaria russa, probabilmente legata al Cremlino. Un discorso tenuto poco dopo l’annuncio dell’operazione Uranium One. Che è avvenuta in tre fasi, dal 2009 al 2013. Con la contemporanea pioggia di dollari nelle casse della Fondazione Clinton.

Se si va, mentre scriviamo, a curiosare sul sito di Hillary Clinton messo a punto per la campagna elettorale non si troverà nulla di tutto questo. Solo grandi sorrisi, immagini in mezzo alla gente, un grande sforzo per “proletarizzare” la supercandidata, altrimenti troppo snob. E Brian Fallon, portavoce per la campagna presidenziale della senatrice che ambisce a essere la prima Presidente donna degli Stati Uniti, dice che nessuno ha esibito uno straccio di prova a sostegno della tesi che da Segretario di Stato abbia fatto gli interessi della Fondazione. Il New York Times, dopo aver imbottito la sua inchiesta di dati imbarazzanti, scrive che non si sa se le donazioni abbiano giocato un ruolo nell’approvazione della transazione sull’uranio. «Non si sa» è un modo per dire che sarebbe anche possibile. E che quindi a far dubitare della corazzata-Clinton non è solo un mancato controllo in materia di conflitti d’interessi, ma c’è quanto basta a silurare una campagna elettorale che si annunciava trionfale.

Ora lo staff presidenziale preparerà repliche e controffensiva. Le donazioni alla Fondazione dai giganti dell’uranio è poi avvenuta per volontà dei soci canadesi, quando la Uranium One passava nella squadra-Putin ma prima che l’operazione fosse perfezionata. Insomma, la Fondazione poteva anche aver accolto finanziamenti dai ricchi imprenditori canadesi dell’uranio, non sapendo che l’Uranium One stava cambiando colori diventando una punta di diamante della rincorsa russa ai mercati mondiali dell’uranio. Il New York Times, che pure è di area democratica, avverte che la vicenda «sottolinea le particolari questioni etiche sollevate dalla Clinton Foundation, guidata da un ex presidente che ha fatto massicciamente affidamento su soldi stranieri per accumulare un patrimonio di 250 milioni di dollari, mentre sua moglie contribuiva ad orientare la politica estera americana nel ruolo di segretario di Stato, assumendo decisioni che potenzialmente potevano comportare dei benefici per i donatori della fondazione