Il nodo della jihad/ Ankara e Washington quell’idillio incrinato

di Mario Del Pero
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Domenica 17 Luglio 2016, 00:39 - Ultimo aggiornamento: 00:40
Hanno atteso qualche ora, Obama e il suo segretario di Stato John Kerry, prima di diffondere un comunicato di sostegno al “governo democraticamente eletto” in Turchia. Non potevano fare altrimenti, ci mancherebbe. Sapevano però bene che qualsiasi fosse stato l’esito del golpe, gli Usa si sarebbero trovati in una posizione alquanto scomoda. In nessun modo avrebbero potuto avallare una simile, flagrante violazione della democrazia in un Paese membro della Nato. La prospettiva però di dover interloquire con un Erdogan rafforzato e ancor più diffidente nei confronti dell’alleato statunitense apre incognite difficili da prevedere e lascia presagire un periodo di rapporti assai tesi tra Ankara e Washington. All’inizio del suo mandato Obama ave va eletto il presidente turco a interlocutore speciale e privilegiato. Dentro una strategia, quella della nuova amministrazione democratica, centrata sulla volontà di delegare responsabilità politiche e operative ai propri alleati minori in modo da permettere un graduale disimpegno statunitense, la Turchia vedeva la sua centralità geopolitica grandemente accresciuta.

Ankara doveva essere alleato nodale - il ponte tra Occidente e Primo Oriente, nella retorica comunemente in uso - sia nell’azione di contenimento dell’islamismo radicale sia in quella di ricomposizione di equilibri mediorientali grandemente destabilizzati dall’interventismo degli anni di Bush. Le primavere arabe prima e il dramma siriano poi avevano accentuato tale ruolo, con la Turchia eletta ad attore fondamentale nell’intermediazione con alcuni dei protagonisti delle transizioni in corso, su tutti i Fratelli Mussulmani in Egitto, e a baluardo nella campagna contro Bashar al Assad, anche perché primo fronte nella gestione del dramma umanitario provocato dalla guerra civile in Siria. Questo fondamentale ruolo strategico si accompagnava alla frequente presentazione di Erdogan come campione e simbolo di un Islam politico capace di essere al contempo democratico, moderno e legato all’Occidente attraverso la Comunità Atlantica. L’asse turco-statunitense ha però rapidamente iniziato a scricchiolare.

 

Le posizioni anti-israeliane di Erdogan - solo di recente modificate - lo hanno reso inviso a molti politici americani. L’atteggiamento tenuto rispetto alla guerra civile in Siria lo ha esposto alle accuse di chi lo ritiene più interessato a colpire i curdi che a combattere davvero l’Isis e il fondamentalismo islamico, anzi utili – secondo questa narrazione critica – ad aiutare Ankara nel suo tentativo di rovesciare Assad. La stretta autoritaria sul piano interno, di cui sono state vittime numerosi giornalisti, ha a sua volta alimentato perplessità se non aperto malumore negli Stati Uniti, tanto che in un recente, lungo articolo sulla dottrina di politica estera dell’amministrazione Obama apparso sulla rivista The Atlantic, il giornalista Jeffrey Goldberg ha scritto che il Presidente statunitense ormai ritiene Erdogan “un autoritario e un fallito”. Molti esperti, infine, hanno sottolineato come i rapporti tra le rispettive forze armate americane e turche, cementate da decenni di collaborazione entro la Nato, siano assai più solidi di quelli politici tra i rispettivi governi.

Da questo golpe sembra però emergere un Erdogan più forte, anche rispetto ai suoi apparati militari destinati a subire un drastico repulisti, e meno incline a coordinare la propria politica estera e di sicurezza con quella di Washington.
Un leader turco, in altre parole, che diversamente dal passato non solo non ha bisogno dell’investitura di legittimità derivante dall’appoggio degli Stati Uniti, ma può rafforzarsi politicamente ostentando pieno affrancamento dalla tutela americana. Rimangono, e non è cosa da poco, i tanti fattori che ancora puntellano i rapporti turchi-statunitensi, dalle fondamentali basi, della Nato e degli Usa, agli aiuti che Washington ha negli anni elargito (tra il 1945 e oggi la Turchia è stata la quarta beneficiaria dell’assistenza militare americana dopo Israele, Egitto e Vietnam). Fattori, questi, dei quali non va ovviamente sottostimata l’importanza, ma che appaiono oggi bilanciati dalle tante crepe e fratture di una relazione divenuta negli ultimi anni più fragile e contestata.
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