Perché oggi l'Europa è più lontana dalla Turchia

di Romano Prodi
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Domenica 8 Maggio 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 16:38
Anche se forse pochi se ne sono accorti, i negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea durano da oltre dieci anni e, se dovessero procedere allo stesso ritmo, durerebbero per molti altri decenni. Vi sono infatti ostacoli permanenti e costanti, come la divisione di Cipro, ed ostacoli che diminuiscono o si accrescono a seconda dell’andamento di particolari interessi o di specifiche tensioni politiche. Tuttavia, analizzando queste lunghe trattative, non si scorge mai una condivisa volontà di fondo per concludere il processo di adesione.

Nonostante i tempi ormai biblici e la volontà di procedere nel lavoro comune, sono stati presi in esame meno della metà dei capitoli nei quali si dividono i negoziati mentre, nel dibattito politico, sono aumentati più i punti di dissenso che di consenso, con il rischio che quest’infinita catena di colloqui, facendo emergere più le diversità che le convergenze, finisca col mettere a rischio anche gli stretti rapporti che debbono essere in ogni caso costruiti fra l’Europa e quel formidabile Paese che è la Turchia. Un Paese che, pur conservando ancora diffuse sacche di povertà, ha compiuto straordinari progressi economici, ha modernizzato tutte le proprie infrastrutture materiali, ha organizzato una struttura statuale formidabile e un sistema di istruzione e ricerca davvero degni di attenzione. In teoria anche le differenze nei negoziati avrebbero dovuto rapidamente diminuire.

 

Mentre sono invece accresciute le distanze che la storia, la geografia e la religione avevano costruito nei secoli fra la Turchia e l’Europa. Distanze che sono sempre state parte della complessità e della ricchezza del processo di allargamento. Dal lato europeo, nonostante la spinta all’adesione da parte degli Stati Uniti e il forte appoggio della Gran Bretagna, si è fatta più forte la paura derivante dalla dimensione stessa della Turchia che, avvicinandosi ai cento milioni di abitanti alla fine del prossimo decennio, costituirebbe il gruppo di gran lunga più numeroso del parlamento europeo e assorbirebbe una parte dominante delle risorse destinate alle politiche regionali.

La crescente insicurezza dell’area geografica su cui insiste la Turchia (pensiamo solo alla Siria e all’Iraq) ha inoltre contribuito ad aumentare la diffidenza e la paura dei cittadini europei mentre, negli ultimi anni, i nostri responsabili politici hanno guardato con preoccupazione alla crescente gravità del conflitto fra il governo turco e i curdi. In un periodo di turbolenza, come quello in cui viviamo, la paura di portare nuovi conflitti all’interno dell’Unione ha ovviamente accresciuto la diffidenza dei cittadini e dei politici europei.

Anche perché la Turchia non solo è diventata una potenza regionale, e quindi meno incline a condividere la propria sovranità, ma si è trasformata in uno Stato sempre più autoritario. Quando Erdogan era salito al potere lo avevamo salutato come colui che avrebbe portato avanti il processo di completa democratizzazione del sistema politico turco. La direzione di marcia è invece progressivamente cambiata verso un crescente autoritarismo, che ha colpito in modo sempre più duro ogni opposizione.

Negli scorsi mesi il problema dei rifugiati ha spinto ad un accordo che avrebbe dovuto ridare vigore ai negoziati, tenendo conto del fatto che, con quasi due milioni di rifugiati che può spingere in ogni momento verso l’Europa, la Turchia è in possesso di una vera e propria arma atomica. Di qui è nato il discusso accordo sui rimpatri che, tuttavia, ha portato ad un sostanziale arresto del flusso di emigranti attraverso la Turchia e che avrebbe dovuto rimettere i negoziati su una corsia più veloce. A questo punto, quasi a ripetere l’inevitabilità di un destino, sono nati nuovi conflitti perché gli accordi prevedevano da un lato l’ingresso dei cittadini turchi nell’Unione Europea senza visto mentre, dall’altro, si richiedeva un cambiamento delle leggi nei confronti del terrorismo, in modo che non colpiscano, come ora regolarmente avviene, insieme ai terroristi, anche gli oppositori politici e i giornalisti troppo liberi.

Su quest’ultimo punto il governo turco non ci sente e, per dare un messaggio concreto, da un lato è stato condannato a cinque anni e dieci mesi di carcere il direttore del principale giornale di opposizione e, nello stesso tempo, è stato costretto alle dimissioni il primo ministro Ahmet Davutoglu, che, volente o nolente, era stato il protagonista del processo di avvicinamento all’Europa negli ultimi anni. Naturalmente, dato che la politica turca è almeno complicata come quella italiana, è difficile dire se il licenziamento sia stato dovuto a questo motivo o al fatto che Davutoglu, volente o nolente, rischiava di fare un po’ troppo ombra a Erdogan. Tuttavia oggi ci troviamo proprio in un bel pasticcio: da un lato l’Europa non può rinunciare all’applicazione di diritti così fondamentali e, dall’altro, la Turchia controlla ancora il drammatico canale dell’emigrazione.

Nei prossimi giorni si aprirà su questi temi un’ennesima difficile trattativa, della quale non siamo ancora in grado di prevedere l’esito finale. La cosa certa è che quest’episodio, invece di abbreviare i termini delle negoziazioni, li allungherà ancora. Forse fino alla fine dei tempi.

 
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