La “conversione” di Trump in Arabia Saudita

di Massimo Introvigne
3 Minuti di Lettura
Lunedì 22 Maggio 2017, 00:00
«La guerra al terrore non è guerra di religione» e l’Occidente non può pensare di «dare lezioni» all’Islam. Chi lo ha detto? Si trattasse di Papa Francesco o di Barack Obama queste espressioni non farebbero notizia. Ma sono parole di Donald Trump, nel suo primo importante discorso di politica estera, pronunciato ieri in Arabia Saudita.

Trump non è Obama. Nonostante i suggerimenti di qualche collaboratore, continua a usare l’espressione “terrorismo islamico”, che il suo predecessore evitava accuratamente. «Questa – ha detto Trump - non è una battaglia tra fedi o tra civiltà. È una battaglia tra barbari criminali che cercano di distruggere la vita umana, e le persone oneste di tutte le religioni che cercano di proteggerla. È una battaglia tra il bene e il male. Questo implica affrontare onestamente la crisi dell’estremismo islamico e dei gruppi di terroristi islamici che esso ispira».

Non è lo stile di Obama, che all’inizio del suo primo mandato al Cairo aveva affermato che i terroristi non sono islamici, né di Papa Francesco, per cui il terrorismo è un fenomeno puramente politico che non c’entra con la religione. Al contrario per Trump c’è un «estremismo islamico» che genera «terrorismo islamico». Ma, se molti terroristi sono musulmani, la maggioranza dei musulmani non sono terroristi, anzi sono “persone oneste” con cui il presidente americano vuole aprire un dialogo. Non è l’irenismo del Papa, ma non sono neppure i toni virulentemente anti-islamici della campagna elettorale.

All’islam non “estremista” Trump offre il dialogo, ma non senza condizioni. Ai musulmani che vogliono essere interlocutori degli Stati Uniti Trump chiede di «essere uniti nella condanna contro l’uccisione di innocenti musulmani, l’oppressione delle donne, la persecuzione degli ebrei, il massacro dei cristiani. I leader religiosi devono essere chiari: la barbarie non vi darà alcuna gloria, se scegliete il terrorismo la vostra vita sarà vuota, sarà breve, la vostra anima sarà condannata». 

Più che a Papa Francesco, Trump assomiglia qui a Benedetto XVI. Anche Papa Ratzinger aveva posto tre condizioni per quel dialogo con l’Islam che pure dichiarava obbligatorio. Primo: condanna senza condizioni del terrorismo, qualunque siano le sue motivazioni e il suo contesto, un modo – senza nominare lo Stato ebraico – di dire che non è sufficiente, come fanno molti leader islamici, dire che il terrorismo non è mai giustificato “tranne quando colpisce Israele”. Secondo: basta con la discriminazione delle donne. Trump, sembra di capire, non chiede ai musulmani di rinunciare alle proprie tradizioni, per esempio di abbandonare il velo, ma chiede il rispetto dei diritti elementari delle donne sanciti dalle dichiarazioni universali dei diritti umani e la fine delle discriminazioni. Terzo: deve essere garantita la libertà religiosa alle minoranze. Anche qui, parlando in Arabia Saudita, il presidente americano non chiede agli Stati islamici di rinunciare alla loro identità ma vuole che a cristiani, ebrei e fedeli di altre religioni diverse dall’islam sia garantito non solo il diritto di esistere ma anche quello di predicare la loro fede.

Sono richieste impegnative e che appartengono alla tradizione della politica estera americana. È troppo presto per dire che Trump sta imparando a fare il presidente, e c’è certo differenza fra i discorsi scritti e pensati dallo staff della Casa Bianca e le improvvisazioni notturne del presidente su Twitter. Ma le richieste ragionevoli e insieme il rispetto mostrato verso l’Islam sono un dato positivo, che preparano l’incontro con Papa Francesco, spiazzano i piccoli Trump nazionalisti e islamofobi che si aggirano per l’Europa, e favoriscono un dialogo fra le religioni di cui il mondo ha bisogno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA