Trump, il difficile equilibrio costruito sul nemico Iran

di Fabio Nicolucci
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Martedì 23 Maggio 2017, 00:45 - Ultimo aggiornamento: 00:48
Ad occhi profani, partendo dall’Arabia Saudita per Israele, Trump non avrebbe potuto arrivare in un mondo più diverso e lontano. Queste due tappe iniziali del suo importante primo viaggio all’estero sono del resto agli antipodi. Dal punto di vista sociale e politico, infatti, la distanza non potrebbe essere più abissale. Non solo i due Paesi sono l’uno il custode dei due luoghi più santi dell’Islam – la Mecca e Medina, mentre il terzo è Gerusalemme – e l’altro l’unica nazione ebraica, ma soprattutto sono il primo una delle società più chiuse al mondo e il secondo una di quelle più aperte.

Mentre in Arabia Saudita non esiste infatti suffragio universale, anzi non esiste quasi suffragio del tutto, e le donne non possono guidare la macchina, in Israele vige un sistema democratico a suffragio universale sin dalla sua fondazione nel 1948. Qui le donne non solo guidano ma fanno anche il servizio di leva, mentre a Tel Aviv ogni anno si tiene – unico Stato del medioriente – un popolarissimo e partecipatissimo Gay Pride, del tutto accettato visto che in Israele i diritti dei gay e delle unioni di fatto sono tra i più avanzati al mondo. 


Ma se enorme è la distanza tra le due società e il loro modo di rapportarsi all’esterno, molto minore negli ultimi anni è divenuta la distanza strategica in termini di alleanze e visione delle problematiche regionali. La sola differenza potrebbe essere nell’approccio, molto da businessman in Arabia Saudita e probabilmente molto più politico in Israele. Per il resto, invece, i punti di contatto sono molti. A partire da quello cruciale della visione dell’Iran come nemico esistenziale. Su questa base comune, Trump ha pronunciato il suo discorso a Riad e ha costruito la sua visita in Israele. Nel discorso di Riad infatti, Trump ha marcato tutte le differenze possibili con il famoso discorso del Cairo del 4 giugno 2009 in cui Obama prometteva «un nuovo inizio con l’Islam». Qui, più modestamente, Trump doveva innanzitutto far dimenticare il suo personale e disastroso inizio di rapporti con l’Islam, e per farlo ha puntato su due “riduzioni”: quella dell’Islam alla parte sunnita, che è sì maggioranza però non totalità, e poi rivolgendosi ai suoi leader più che al popolo.

Ai suoi colleghi, insomma. Ai quali la formula «comuni interessi e valori» sono stati declinati come «lotta al terrorismo» e «scambi commerciali». Nulla vi era della visione di Obama, se non la ripetizione - giusta, ma fatta anche da Obama - che la maggior parte delle vittime del terrorismo jihadista sono musulmane. Un discorso dunque privo di afflato universale e per questo di politica regionale, anche perché le leadership presenti non rappresentavano nemmeno la maggioranza dei musulmani sunniti, che vivono invece in Indonesia, Asia del Sud, Egitto, Turchia e Nigeria. Ma forse proprio perché un commentatore ha detto che «il discorso poteva essere stato scritto da una ditta saudita di relazioni pubbliche», esso bene o male ha funzionato, e non era scontato. Aiutato anche dalle assai basse aspettative, visti i precedenti ed anche i primi executive orders della sua Presidenza. Additando l’Iran come fonte di tutti gli sconvolgimenti regionali - terrorismo e guerre civili - Trump ha dunque fatto dimenticare a Riad le sue prime dichiarazioni sull’Islam, e preparato un terreno favorevole per la seconda tappa in Israele, cominciata ieri. Netanyhau è infatti da sempre avversario della visione di Obama dell’Iran come “avversario” con cui provare a negoziare piuttosto che come “nemico esistenziale” con cui ciò non è possibile. Ma l’impressione è che ciò potrebbe non bastare, al netto dell’allergia di Netanyahu per Obama e alla sua istintiva simpatia per Trump.

Perché il rapporto tra i due Stati non può ridursi a quello tra due persone e nemmeno tra due Amministrazioni, come si vede dal problematico ruolo del genero Jared Kushner, anche se questo è il tentativo e lo stile di Trump. Inoltre, ancora non risolti sono i dubbi che gran parte dell’ebraismo nutre verso l’aspetto suprematista e razzista bianco con cui Trump ha vinto le elezioni, che Trump deve farsi ancora perdonare, esattamente come ha provato a farsi perdonare l’islamofobia a Riad. Scivoloni sono sempre possibili. Soprattutto di fronte a questioni così complesse come il conflitto israelo- palestinese e poi gli sconvolgimenti regionali. 
Qui tutto dipende dall’analisi. Se Trump continuerà a pensare che il problema dell’Isis abbia soluzioni andando contro Teheran e non invece risolvendo le pretese sunnite che lo hanno sostenuto a Riad, e che basti riconoscere alcuni dati di realtà - andando al Muro Occidentale, e magari spostando l’ambasciata Usa a Gerusalemme - senza però saper costruire uno Stato Palestinese, allora lavorerà in realtà per quello status quo che dice di voler cambiare. E lo status quo sono le guerre civili in corso, l’esistenza dell’Isis al di là delle sue sconfitte militari, il ruolo crescente della Russia, l’impossibilità di contenere la forza iraniana solo militarmente, e la putrescenza della questione palestinese. Che potrebbe contagiare come una cancrena la fibra stessa della società israeliana e dello Stato d’Israele. 
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