Indagini e 007/ Il corto circuito delle informative

di Alessandro Orsini
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Venerdì 30 Dicembre 2016, 00:49 - Ultimo aggiornamento: 00:53
Ogni attentato contro le capitali europee pone il problema dello scambio di informazioni tra i servizi segreti. La questione si sta presentando anche con il terrorista di Berlino, Anis Amri, il quale era stato posto sotto osservazione dal personale delle carceri italiane che avevano notato il suo processo di radicalizzazione. Dunque, le autorità italiane sapevano che Anis Amri aveva maturato idee violente. Eppure, è stato scarcerato. Che cosa non ha funzionato? In primo luogo, occorre chiarire che quasi tutti i jihadisti che hanno realizzato una strage o un omicidio nelle città occidentali, tra il 2004 e il 2016, erano attenzionati dai servizi segreti.

È utile ricordare i casi più eclatanti. Uno dei due fratelli Kouachi, gli autori della strage di Charlie Ebdo del 7 gennaio 2015, era stato in carcere perché aveva cercato di recarsi in Iraq per arruolarsi nelle fila di al Qaeda. Nidal Hasan, il maggiore dell’esercito americano che ha realizzato la strage di Fort Hood, in Texas, il 5 novembre 2009, aveva avuto uno scambio di venti email - intercettato dalle autorità americane - con uno dei principali reclutatori di al Qaeda, Anwar al-Awlaki. Uno dei due fratelli Tsarnaev, gli autori della strage contro la maratona di Boston del 15 aprile 2013, era stato segnalato agli americani dalle autorità russe come sospetto jihadista. Per non parlare dei militanti dell’Isis che hanno realizzato la strage di Parigi del 13 novembre 2015 e di quelli che hanno realizzato la strage di Bruxelles del 22 marzo 2016. 

Il fatto che Anis Amri sia sfuggito al controllo delle autorità italiane non rivela impreparazione o distrazione. Rivela un problema più profondo che investe tutti i Paesi occidentali. Il problema nasce dal fatto che è impossibile coniugare i principi della cultura liberale, che sono alla base delle nostre costituzioni politiche, con la lotta contro la radicalizzazione della mente. È semplice: la cultura liberale non consente di criminalizzare il pensiero. In linea di principio, permette alle persone di nutrire idee violente purché le loro azioni non violino le leggi. Una persona può dire a un amico di condividere le idee di al Qaeda, a patto che non assuma comportamenti concreti in suo favore. Il Parlamento italiano ha così dovuto fare una complicatissima contorsione giuridica per approvare una legge, il 15 aprile 2015, che contrasti la radicalizzazione del pensiero nel rispetto dei principi liberali. La nostra legge “anti-Isis” ha introdotto il reato di propaganda via web.

Sul suolo italiano, non è possibile utilizzare internet per fare “apologia del terrorismo”. Dunque, la legge italiana consente di avviare un’indagine contro coloro che utilizzano il web per dire “forza Isis!”, ma non consente di punire coloro che scaricano i documenti di propaganda dell’Isis, cosa che gli studiosi di terrorismo fanno tutti i giorni senza il minimo problema. Insomma, la legge italiana cerca, in modo surrettizio, di criminalizzare il pensiero jihadista, ma non può farlo in modo aperto. Ed è pertanto soggetta all’interpretazione dei magistrati, i quali decretano spesso la scarcerazione dei soggetti incriminati, provocando le ire del Ministero degli Interni che scavalca la magistratura attraverso i decreti di espulsione. La magistratura dice: «Questo ragazzo si è limitato a scaricare un documento dell’Isis: non è sufficiente per condannarlo». Il ministero degli Interni risponde: «E se poi uccide qualcuno? Non possiamo lasciarlo a piede libero». Ecco il corto circuito politico-istituzionale provocato dall’Isis: i magistrati hanno il dovere di difendere un principio astratto; il Ministero degli Interni ha il dovere di difendere la vita delle persone. La polemica tra questi due poteri è continua. 

Per arrivare al punto: che cosa possono fare le autorità italiane nei confronti di un ragazzo che, come Anis Amri, si radicalizza in carcere? Molto poco perché chi si radicalizza in carcere non commette un reato specifico. Il fatto che un detenuto sussurri al compagno di cella di ammirare l’Isis non è punibile. Non esiste il reato di esprimere i propri pensieri al compagno di cella e non potrebbe esistere, senza modificare il nostro ordInamento in senso illiberale. 
Quando Anis Amri tornò in libertà, le autorità italiane avevano intuito che aveva acquisito idee radicali, ma non potevano trattenerlo in carcere sulla base di una semplice intuizione. E così utilizzarono lo strumento più efficace di cui disponevano, l’espulsione, ma i ritardi delle autorità tunisine giocarono in favore di Anis Amri, che partì per la Germania nel luglio 2015.

Il problema non è il mancato scambio delle informazioni tra i servizi di intelligence, che esiste ed è reale. Il problema profondo è che non possiamo utilizzare queste informazioni con efficacia. 
Anis Amri non è stato favorito da una persona in carne ed ossa, ma da una cultura politica. Ecco il dilemma irrisolvibile: per essere certi di fermare gli uomini come Anis Amri, dobbiamo introdurre il principio del sospetto nel nostro ordinamento giuridico. Se però distruggiamo le libertà liberali, l’Isis ha vinto anche se cessa di realizzare i suoi attentati.
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