Sul G20 l'ombra del conflitto Usa-Cina

Sul G20 l'ombra del conflitto Usa-Cina
di Anna Guaita
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Martedì 4 Luglio 2017, 10:15

NEW YORK Voce grossa durante la campagna elettorale. Poi toni amichevoli, conditi da strette di mano. Poi di nuovo proteste, polemiche, provvedimenti punitivi, e perfino navi da guerra ai limiti delle acque territoriali. Comprensibile che qualcuno si sia perfino stupito che domenica sera il presidente cinese abbia accettato di parlare al telefono con Donald Trump. Il fatto che qualcuno avesse addirittura temuto che Xi Jinping potesse negarsi è la prova di quanto i rapporti fra Washington e Pechino siano degenerati nell'arco di pochi mesi. E adesso, a soli tre giorni dal G20 di Amburgo, durante il quale Trump incontrerà di nuovo Xi e vedrà per la prima volta Vladimir Putin, il presidente cinese è proprio a Mosca, per una bilaterale con il russo.

L'ALLEANZA
Gli analisti americani guardano e si impensieriscono: un'alleanza strategica fra Mosca e Pechino è uno dei grandi spauracchi per i presidenti americani. Lo hanno temuto tutti, da Richard Nixon fino a Barack Obama. Ma per il nuovo presidente sembra che la paura degli sviluppi nucleari nella Corea del Nord la vinca su tutto. Ed è proprio per l'irritazione verso la Cina e per il suo scarso sostegno nella lotta contro PyongYang, che Trump nelle ultime settimane ha scelto il confronto contro Pechino, dopo che lo scorso aprile l'incontro con Xi Jinping in Florida era stato all'insegna della cordialità, e aveva fatto pensare che l'asprezza espressa in campagna elettorale stesse evaporando.
Pochi giorni fa invece il Dipartimento del Tesoro ha annunciato sanzioni contro una banca cinese, la Bank of Dandong, dichiarandola colpevole di riciclaggio per conto di Pyongyang. È la prima volta dal 2005 che negli Usa vengono elevate sanzioni contro una banca cinese.
Quasi contemporaneamente, il dipartimento di Stato esprime una forte condanna della Cina per la sua politica di sfruttamento del lavoro, e degrada Pechino al posto più basso nella lista dei Paesi complici del traffico di esseri umani. E non è finita. Nella pioggia di iniziative punitive contro Pechino, va inclusa anche la vendita di armi a Taiwan, confermata la scorsa settimana dal Pentagono.

LA SCINTILLA
All'isola ribelle, che Pechino considera ancora parte del proprio territorio, il Pentagono ha venduto armi per 1,42 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti vendono armi a Taiwan dagli anni Settanta, quindi il gesto non è una novità. Tuttavia la Cina di Xi Jinping è più che mai decisa a isolare Taiwan, e a riaffermare il proprio predominio in tutto il Mar cinese del Sud. Ed è proprio su questa pretesa che è scattata l'ultima protesta anti-cinese in ordine di tempo da parte di Washington, che ha inviato il cacciatorpediniere Uss Stethem fino a dodici miglia nautiche dall'arcipelago Paracels, di cui la Cina insiste di essere proprietaria, nonostante simili rivendicazioni del Vietnam e della stessa Taiwan.
Il Pentagono aveva mandato un'altra nave da guerra lo scorso maggio ai confini delle acque territoriali anche delle Spratly Islands, un altro gruppo di isole rivendicate dalla Cina, ma anche dal Vietnam e dalla Malesia. Anche queste affermazioni territoriali non sono una novità: le ha ordinate anche Obama, nell'intento di riaffermare la libertà di navigazione. Ma che Trump l'abbia ordinata a soli quattro giorni dall'incontro con Xi ad Amburgo sembra un segnale ben chiaro: o la Cina si decide ad aiutare a fermare il nucleare della Corea del Nord, o non ci saranno sorrisi che tengano. Tuttavia Xi sta trovando un alleato più facile e comodo in Putin, tanto che ieri - al quinto incontro con il presidente russo - ha detto che i rapporti fra Mosca e Pechino «non sono mai stati migliori». Per l'appunto, nella conversazione telefonica con Trump, Xi aveva invece detto che «ci sono fattori negativi» che ostacolano i rapporti fra Washington e Pechino.
Anna Guaita