Spagna, così Rajoy argina i populisti. La vera sorpresa è Podemos

Spagna, così Rajoy argina i populisti. La vera sorpresa è Podemos
di Mario Ajello
5 Minuti di Lettura
Lunedì 21 Dicembre 2015, 08:26 - Ultimo aggiornamento: 08:27
ROMA - Felipe Gonzalez, l'ex premier socialista, aveva azzeccato la previsione qualche giorno fa: «Avremo un Parlamento all'italiana ma senza italiani». E senza neppure l'Italicum, che ha tanti difetti ma la sera delle elezioni consegna un vincitore certo al Paese che si è appena recato alle urne. La Spagna in questo voto rocambolesco che sarebbe piaciuto a Don Chisciotte ha scoperto una serie di novità sconvolgenti per la sua tradizione politica e per la sua storia nazionale. E' finito bruscamente il bipartitismo, che ha funzionato in maniera egregia e automatica in tutti questi decenni del post-franchismo e del ritorno alla democrazia. Ed è scoppiato, ad urne ancora calde, il cosiddetto “rompecabeza”: il rompicapo del governo e della governabilità, la composizione di ciò che al momento appare non componibile. Il Partito Popolare di Mariano Rajoy, che è arrivato primo, non ha i voti per formare una maggioranza insieme a quello che dovrebbe essere l'alleato naturale, i Ciudadanos del nuovo centro europeista, anti-establishment e spigliato (il leader Rivera s'è fatto immortalare nudo). E il Psoe più Podemos e più Izquierda Unida lo stesso: no tituli, come direbbe l'allenatore Mourinho ormai in disgrazia perfino più del segretario dei socialisti spagnoli Sanchez, ossia niente seggi sufficienti per piazzarsi al posto di Rajoy. 



GLI INEDITI
Si è scoperta, in questo match, l'efficacia poco spettacolare dell'usato sicuro con la vittoria ridotta, parziale e condizionata di Rajoy («Ha vinto la Spagna seria», le sue prime parole) che l'ha spuntata a fatica da non telegenico nelle elezioni più telegeniche della storia iberica. E insomma il grigio e tecnocrate premier uscente e forse (ma come?) rientrante si è rivelato capace di parlare alla Spagna profonda e popolare. Giocando una partita senza fronzoli (la “sensatez” ovvero la pacata ragionevolezza dei programmi riassunta così: «Si fanno solo le cose che si possono fare e non c'è nessuna ideologia nelle scelte che si fanno») e basata sul richiamo all'ordine contro la demagogia populista alla Podemos o i nuovismi alla Ciudadanos o alla politica light del leader socialista Sanchez e sul fatto che l'economia spagnola si sta rimettendo in ordine dopo la durezza tremenda della crisi.

La scoperta nella Spagna post-bipartitica che i numeri sono insufficienti per tutti produce un altro inedito. Il nuovo monarca, il giovane Felipe VI, dovrà adoperarsi per aiutare la creazione di un governo stabile intervenendo nel quadro politico come mai è stato costretto a fare il suo predecessore Juan Carlos. Adesso è cambiato tutto, a cominciare appunto dal fatto che la governabilità va costruita con la pazienza della tessitura e con la fantasia necessaria a supplire all'incertezza del responso delle urne. E allora: il merkeliano Rajoy si spingerà all'azzardo, finora da lui negato e presumibilmente assai gradito a Frau Angela, di una grande alleanza alla tedesca con i socialisti che finora lo hanno insultato dicendogli - come ha fatto Sanchez in tivvù - «sei una persona indecente»? L'unica prospettiva percorribile sembra proprio questa ma nel dna della Spagna, che pure è un Paese barocco, non esiste quella capacità tutta nostrana - Cossiga era italico, Mastella lo è ancora - di unire gli opposti. E in questo caso la polarizzazione tra i due partiti principali è tale che avviare un dialogo è tanto necessario quanto impervio. Senza Rajoy, e con al suo posto la vice dei Popolari, Soraya Saenz de Santamaria, la larga alleanza sarebbe più facile? La situazione, se così andrà, potrebbe ricordare quella che vivemmo noi. Quando la vittoria non vittoria di Bersani aprì la strada grancoalizionale al suo vice nel Pd, Enrico Letta. Ma non è da escludere, in Spagna, neanche l'ipotesi di nuove elezioni in primavera.

Esagerava Churchill, adorato da Rajoy, quando sosteneva che «spesso le difficoltà di una vittoria sono superiori alle difficoltà di una sconfitta», ma nella Spagna post-voto la massima di Winnie una qualche aderenza ce l'ha. Anche se Rajoy ha fatto della gestione, dell'uscita dall'austerity tosta dopo tanti sacrifici, del pil in crescita al 3,4 per cento e della disoccupazione sempre oltre il 20 per cento ma in discesa, dell'esperienza (è sopravvissuto a due sconfitte consecutive, nel 2004 e nel 2008 contro Zapatero e ultimamente nelle disastrose elezioni amministrative) le sue carte semi-vincenti.

CAMPAGNA ANTI-CASTA
In Spagna è accaduto che la speranza nel fragile inizio di una ripresa economica, a cui il pragmatismo merkeliano di Rajoy ha dato una mano, si è rivelata più forte delle polemiche contro la corruzione, di cui il partito popolare ha dato prova. E più forte della campagna anti-casta che ha premiato ma non troppo Podemos e si è rivelata più capace di penalizzare i socialisti - piombati al loro minimo storico che renderà assai complicata la permanenza di Sanchez alla leadership del Psoe - piuttosto che di battere l'usato sicuro di Rajoy. Il quale, tra l'altro, ha subito in silenzio il pugno in faccia che gli ha tirato qualche giorno fa un suo antagonista sedicenne in Galizia (Rajoy è galiziano come Francisco Franco) e dopo essere tornato dal vertice Ue dove in molti gli hanno massaggiato la guancia ferita si è tolto la soddisfazione (ma sarà capace di renderla operante?) di arrivare primo sia pure con gli occhiali rotti e con i numeri che sono infinitamente più bassi di quel 44 per cento che il Partito popolare ottenne alle elezioni del 2011. La brutta prova dei socialisti intanto ha una spiegazione: Sanchez si è messo a inseguire la retorica anti-casta di Podemos, ha cercato di togliere a Iglesias i voti di sinistra lasciandogli solo quelli che qui chiameremmo di tipo grillino e insomma annacquando e confondendo l'identità di un partito che ha sempre vinto guardando un po' anche al voto moderato e stavolta invece ha cambiato strategia. 

Un doppio dato da tenere presente. L'affluenza alta: a riprova che quando c'è la consapevolezza che si può risalire dalla crisi economica le energie elettorali si rimettono in movimento. E il fatto che un quarto del Parlamento è occupato dai nuovi partiti anti-casta. A cominciare da Podemos che ieri sera festeggiava in piazza. Ma dal «vinciamo noi» è passato - ancora una volta e come capita ormai spesso ai partiti populisti - al vinciamo poi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA