Lo slogan sbiadito di Trump e le pesanti ipoteche di Hillary

di Mario Del Pero
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Venerdì 21 Ottobre 2016, 00:13
È di un paio di settimane fa un sondaggio di Gallup International su come il resto del mondo voterebbe se fosse chiamato a scegliere tra Donald Trump e Hillary Clinton. Il risultato non è sorprendente: pur non avvicinandosi ai picchi di popolarità globale di Obama, la candidata democratica prevale in 44 dei 45 Paesi in cui si è svolto il sondaggio. L’unica eccezione è la Russia, dove Trump ottiene 23 punti percentuali in più. Secondo questa rilevazione, lo scarto è particolarmente ampio all’interno dei principali Paesi dell’Unione Europea: Clinton prevale 77 a 8 in Germania, 72 a 10 in Francia, 73 a 16 in Italia, 70 a 4 in Spagna.

Incide, ovviamente, l’immagine straordinariamente negativa di Trump e il convincimento – che le sue parole peraltro ben motivano – che un successo del miliardario newyorchese avrebbe effetti destabilizzanti sull’ordine internazionale e sulle relazioni transatlantiche. Rispetto a queste ultime, Hillary Clinton sembra dare molte garanzie. Non solo una Presidenza Clinton agirebbe in continuità con molti aspetti della politica estera di Obama. L’ex segretario di Stato rappresenterebbe anche una figura più collocabile rispetto all’attuale Presidente entro quella rete di élites transatlantiche la cui influenza è grandemente decresciuta durante gli anni di Obama, contraddistinti da una politica estera Asia-centrica, che ha a lungo declassato l’Europa nella gerarchia degli interessi geopolitici di Washington.

Cosa può aspettarsi l’Europa da un’amministrazione Clinton? Nel prossimo quadriennio quali potrebbero essere i dossier nodali delle relazioni transatlantiche? Per convenienza, potremo dividere la questione in tre categorie cruciali: l’ideologia, la sicurezza, l’economia. Laddove Obama era una figura globale e, come ha affermato lui stesso, il “primo Presidente americano del Pacifico”, la biografia politica di Hillary Clinton sta dentro schemi in cui la dimensione euro-americana sembra pesare maggiormente. Parla il lessico di un internazionalismo dove centrale è il comune denominatore democratico ed occidentalista; offre una retorica lontana dal cerebrale realismo obamiano, nella quale forte è l’eco di un interventismo umanitario sul quale parve formarsi negli anni Novanta una nuova convergenza tra liberal americani e sinistra democratica europea, poi travolta dagli attentati dell’11 settembre e da quel che ne è seguito. È un’atlantista, insomma. E lo è anche perché mossa da una visione delle relazioni internazionali dove l’elemento di potenza, e gli antagonismi che ne conseguono, sono riconosciuti e sottolineati.

Questo ci porta al secondo punto: la sicurezza. Ha fatto specie nell’ultimo dibattito televisivo tra i due candidati sentire la Clinton descrivere la Russia, e Vladimir Putin, con toni che sembravano riecheggiare quelli della Guerra Fredda. Incidono certamente le rivelazioni ultime di Wikileaks, dietro le quali paiono esservi hackers e servizi russi. Ma l’ostilità alla Russia della Clinton predata quest’ultimo episodio. E alcuni degli intellettuali e dei diplomatici statunitensi che più si esposero a sostegno dei manifestanti anti-russi in Ucraina, su tutti l’allora vice-Segretario di Stato per gli Affari Europei Victoria Nuland, erano e sono assai vicini alla candidata democratica. Da una presidenza Clinton è quindi plausibile aspettarsi un’accentuazione dell’importanza strategica dell’Europa orientale, centrata però su un paradigma anti-russo potenzialmente pericoloso e rispetto al quale i principali Paesi europei, a partire dalla Germania, saranno chiamati a un cruciale compito di mediazione, che peraltro stanno già in parte svolgendo.
L’economia, infine. Hillary Clinton ha sempre sostenuto un’agenda di liberalizzazione commerciale globale, solo temporaneamente abbandonata in questo ultimo anno, per ovvie ragioni di convenienza elettorale. Gli Stati Uniti sono un partner fondamentale dell’Europa, con cui hanno un deficit delle partite correnti significativo ancorché meno marcato rispetto a quello con la Cina. Passata la buriana elettorale, è scontato che la Clinton cercherà di rivitalizzare quell’accordo commerciale transatlantico che oggi giace semi-moribondo, vittima di un clima dove dominano su entrambe le sponde dell’Atlantico parole d’ordine protezionistiche, alimentate anche dall’onda lunga della crisi del 2007-8. È probabile pertanto che il negoziato riparta in forme silenziose e il più lontano possibile dai riflettori. E che la sua sorte sia destinata a essere legata a quella dell’accordo transpacifico, firmato ma non ancora ratificato da Washington (e oggi formalmente osteggiato dalla Clinton, che da segretario di Stato contribuì però a negoziarlo). A dimostrazione, in ultimo, di un’interdipendenza globale della quale l’Europa e le relazioni transatlantiche continuano a costituire elementi fondamentali.


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