Il ritiro dalla Siria/Putin e Usa più vicini, resta il nodo dell’Ucraina

di Romano Prodi
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- Ultimo aggiornamento: 20 Marzo, 00:05
Il ritiro delle truppe russe dalla Siria, annunciato senza preavviso il 14 marzo, ha preso tutti di sorpresa, anche se fa parte della collaudata, e finora ben riuscita, strategia di Vladimir Putin di fare rientrare la Russia tra le potenze che gestiscono il presente e il futuro del mondo. 
Un obiettivo non certo facile in un momento in cui la Russia si trova in una fase di pesanti difficoltà economiche sia per il crollo del prezzo del petrolio che per le sanzioni che non solo stanno rallentando il commercio ma sono di grave ostacolo allo sviluppo e alla modernizzazione del Paese. Il crollo del prezzo del petrolio e le sanzioni hanno infatti stretto in una tenaglia la Russia facendo precipitare il Prodotto nazionale del 4% nello scorso anno e con la previsione di un pesante segno meno anche per l’anno in corso.
Si è trattato di una mossa a rischio zero perché, se fosse necessario, le truppe russe potrebbero riprendere il loro precedente impegno partendo dalla base di Latakia, che rimane pienamente in funzione come presidio russo in tutto il Medioriente. 
Con questa decisione Putin ottiene un doppio risultato: ossia risparmiare tre milioni di dollari di spesa militare al giorno e allo stesso tempo fare capire di avere imparato le lezioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, cioè che bisogna ritirarsi dai conflitti militari prima che questi diventino una malattia mortale per il proprio Paese.
 
In un certo senso Putin può anche cantare vittoria nei confronti dell’opinione pubblica mondiale perché è riuscito a salvare il suo alleato siriano Assad da una sconfitta ormai sicura diventando quindi arbitro, insieme agli Stati Uniti, di un qualsiasi futuro accordo sulla sistemazione della regione. Putin ha salvato certamente Assad ma, col ritiro dell'impegno diretto, lo ha anche avvertito che si tratta di una protezione condizionata all'adozione di comportamenti politici in linea con gli obiettivi strategici generali della Russia. 
È chiaro che questo protagonismo in politica estera, aggiunto alle iniziative degli scorsi anni sul fronte europeo, garantiscono al presidente russo un elevato livello di apprezzamento dell'opinione pubblica nazionale in un periodo nel quale i sacrifici dei suoi cittadini sono davvero pesanti. A questo obiettivo di politica interna si aggiunge tuttavia anche il messaggio diretto al presidente Obama che, senza un accordo fra Russia e Stati Uniti, non si può ottenere alcun progresso né nei confronti del processo di pace in Medio Oriente né, soprattutto, nei confronti della lotta contro il terrorismo.
Un accordo che, almeno di fronte al nemico comune del terrorismo, doveva essere sottoscritto già da molto tempo e che, in ogni caso, è divenuto oggi più fattibile, anche se i concreti progressi negli incontri di Ginevra sono ancora da venire. La possibilità di un avvicinamento fra la strategia russa e quella americana è inoltre condizione per arrivare a una tollerabile convivenza fra Iran e Arabia Saudita e a un comportamento meno imprevedibile da parte del governo turco.
Il tutto si inserisce in un obiettivo non certo secondario e, in ogni caso, comune a tutti i protagonisti elencati in precedenza: spingere verso l'aumento dei prezzi del petrolio. Oggi quest'obiettivo non è solo urgente per la Russia ma lo è anche per l'Arabia Saudita che sta erodendo la dimensione dei suoi fondi sovrani a un ritmo superiore ad ogni previsione. Lo è inoltre per l'Iran che ha bisogno degli introiti del petrolio per dare vigore al suo nuovo corso politico ed economico. Comincia infine ad esserlo per gli Stati Uniti, dove il crollo dei prezzi mette oggi a rischio l'importante obiettivo dell'indipendenza energetica per effetto della discesa sempre più consistente della produzione dello shale oil.
L'iniziativa russa rende quindi meno fantasioso, almeno dal punto di vista politico, il passo verso un'ipotesi di ripresa dei prezzi del petrolio, rendendo possibile e conveniente la distribuzione del peso di un'eventuale concordata diminuzione della produzione fra tutti i grandi protagonisti. Quello che noi europei ci aspettiamo e ci auguriamo non è certo un aumento dei prezzi del petrolio ma uno sviluppo delle trattative di pace sulla Siria. È la pace, infatti, la condizione indispensabile perché si riduca il tragico flusso dei profughi che oggi fuggono da quel Paese. Il cammino in questa direzione è ancora lungo, come è ancora lungo e tortuoso il processo di pace in Ucraina. Gli accordi di Minsk hanno trasformato una guerra cruenta in una guerra congelata ma la pace non è certo più vicina. Si succedono i governi ma non diminuisce il loro livello di corruzione, siano essi politicamente vicini alla Russia o agli Stati Uniti e all'Ue.
Tenuto purtroppo conto della Disunione Europea, anche in questo caso dobbiamo essere consapevoli che la ricostruzione economica, politica e morale del'Ucraina passa ancora una volta da un'intesa fra gli Stati Uniti e la Russia. I drammi che provengono dal Medio Oriente ci hanno fatto dimenticare il livello a cui sono arrivate le sofferenze dei cittadini ucraini. Siamo oltre i limiti dell'immaginabile. Le due grandi potenze dovrebbero quindi almeno organizzare con urgenza un grande progetto di aiuti umanitari all'Ucraina. Almeno di fronte a quest'iniziativa l'Europa ha la possibilità di presentarsi unita. 

 
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