Certo, i vari servizi di spionaggio non spenderanno soldi ed energie per registrare dal satellite un volgare ladruncolo. Ma se volessero, potrebbero. Anche se il sospettato parlasse in un bunker ascoltando, a tutto volume, la quinta di Beethoven. Pertanto, quando comunichiamo, lo facciamo a nostro rischio. Insomma, siamo avvertiti. Secondo. Tutte le scelte della vita sono frutto di un bilanciamento di valori, o meglio di interessi. Possono essere etici, religiosi, economici, aziendali, sentimentali, ma sono sempre interessi. Nel caso di cui parliamo, l’interesse alla riservatezza dei dati è opposto a quello della ricostruzione di una strage e dell’individuazione dei complici del colpevole, peraltro deceduto. Quale dei due è prevalente? Personalmente credo che negli Usa, come in Italia, il diritto alla riservatezza debba cedere di fronte a due valori, e a due soltanto: la sicurezza nazionale e l’incolumità pubblica o privata. Ma quale che sia il verdetto finale della giustizia americana, si tratta, in definitiva, di una scelta politica. Per l’Italia sarebbe opportuno che il legislatore definisse chiaramente gli interessi ai quali possa esser sacrificata la segretezza delle comunicazioni, bene primario protetto dall’art 15 della Costituzione.
Terzo. Il problema della “detenzione” dei dati sensibili, è in realtà un falso problema. Se Apple non vuole concederne l’accesso al Fbi, sbloccando il cellulare, i confini della disputa sono solo spostati. Perché con il pretesto di evitarne la consegna, Apple ne mantiene il monopolio esclusivo. Anche se le conversazioni non saranno ricostruite dall’Agenzia federale, potranno benissimo esserlo dall’azienda privata. Sarà dunque una segretezza affievolita e precaria, perché nessuno può garantire che un giorno un dipendente infedele non decritti i messaggi e, come è accaduto con WikiLeaks, li passi alla stampa. Questo ci conduce all’ultima considerazione, valida anche per noi. Che il problema vero non è tanto la “detenzione” dei dati sensibili - intercettazioni o altro - ma la possibilità di una loro diffusione.
Non vi è nulla di male che lo Stato ascolti, nell’interesse della sicurezza e dell’incolumità pubblica, tutte le conversazioni che ritiene utili.
Anzi, è bene che a tal fine disponga di mezzi sempre più aggiornati ed efficienti. Ciò che dev’essere impedito è che ne faccia un uso improprio e, peggio ancora, che ne consenta la pubblicazione. Il nostro ordinamento prevede già questo saggio bilanciamento di interessi. Si chiamano “intercettazioni preventive”, costituiscono un ottimo strumento di controllo, costano relativamente poco e soprattutto, essendo nella cassaforte del Pubblico Ministero, sotto la sua personale responsabilità, non finiscono mai sulla stampa. Come invece è accaduto occasionalmente con WikiLeaks, e come da noi, per le intercettazioni ordinarie, accade quasi ogni giorno.
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