Prete italo-argentino complice dei torturatori di Videla non sarà estradato dall'Italia: nel codice non è reato

Prete italo-argentino complice dei torturatori di Videla non sarà estradato dall'Italia: nel codice non è reato
di Antonio Bonanata
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Lunedì 15 Febbraio 2016, 15:04 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 08:25
Franco Reverberi è un sacerdote della diocesi di Parma e vive tranquillo a Sorbolo, a circa dieci chilometri dalla città emiliana. Ha 78 anni e origini argentine. Ma negli anni Settanta, durante il sanguinoso regime di Jorge Videla, era cappellano dell’esercito presso la “Casa dipartimentale”, nella località di San Rafael. Secondo il racconto di alcuni testimoni, e grazie alle prove raccolte dalla giustizia di Buenos Aires in questi anni, nelle celle di quell’edificio si sono compiuti atroci atti di tortura ai danni degli oppositori. Ben quattro persone hanno identificato in Reverberi il cappellano militare della “Casa dipartimentale”.

Il 15 novembre 2012 il tribunale federale di San Rafael ha chiesto la “detenzione immediata” del sacerdote italo-argentino, per essersi negato alle domande che i giudici avrebbero voluto fargli, chiamandolo a rispondere di un’eventuale implicazione in quei crimini. Già nel 2010 don Franco aveva deposto in aula, quando i testimoni lo avevano identificato. Poi è tornato in Italia. Il tribunale argentino di San Rafael ha quindi sollecitato il nostro paese a estradare Reverberi, perché possa essere giudicato sul sospetto coinvolgimento nelle torture alla “Casa dipartimentale”. Dall’Italia, però, è arrivato un netto rifiuto: nel nostro codice penale il reato di tortura non è previsto, non ci sono pertanto i presupposti per un’estradizione. Don Franco dovrebbe rispondere anche del reato di lesioni; ma è stato prescritto, quindi niente da fare.

Il caso di Reverberi è noto ai media argentini e spagnoli. In Italia solo un grande silenzio. Che Monica Bernabè, giornalista del quotidiano El mundo, ha provato a rompere, recandosi a Sorbolo per parlare con alcuni parrocchiani. Ma tutti si negano, nessuno si sbilancia: «No, non sappiamo», «Sì, qualcosa. Però è una storia passata, non lo hanno estradato. Don Reverberi è una persona buona e tranquilla, non possiamo giudicarlo per ciò che è avvenuto anni fa. Ci penserà Dio».

Di anni ne sono trascorsi esattamente 40: era infatti il 1976 quando, nelle celle della “Casa dipartimentale”, si consumarono, anche grazie alla complicità di don Franco, le torture dei militari argentini. Questa è la tesi dell’accusa, che vorrebbe interrogare direttamente Reverberi, ma che finora ha ricevuto dall’Italia solo rifiuti. L’ambasciata argentina a Roma ha fatto ricorso presso la Corte di Cassazione contro la decisione della Corte d’Appello di Bologna, che negava l’estradizione del sacerdote a Buenos Aires. Fonti ufficiali della rappresentanza diplomatica in Italia, inoltre, fanno sapere che la stessa richiesta è stata formulata per altri due generali italo-argentini, che vivono indisturbati nel nostro paese.

Il tema dell’introduzione del reato di tortura in Italia non è nuovo nel dibattito pubblico e ha già suscitato polemiche e scontri tra chi ritiene che il nostro ordinamento dovrebbe colmare questa grave lacuna legislativa e chi si oppone strenuamente (come le sigle sindacali delle forze dell’ordine), giustificando la posizione contraria col timore che ciò porti a «criminalizzarle», dice Fabrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che si batte da anni perché la tortura diventi un reato anche per il codice penale italiano. Nell’aprile 2015 la Corte europea dei diritti umani ha condannato il nostro paese a risarcire di 45mila euro Arnaldo Cestaro, una delle vittime delle violenze compiute durante il G8 di Genova del 2001.

Arturo Salerni, uno degli avvocati dell’ambasciata argentina a Roma che segue il caso, spiega che si potrebbe tentare la strada del diritto internazionale, ad esempio appellandosi alla Convenzione Onu contro la tortura, firmata anche dall’Italia. Ma la Corte di Cassazione su questo punto ha usato parole che più chiare non potrebbero: “È necessaria una legge che converta la proibizione internazionale della tortura in un delitto”.

Tocca quindi al Parlamento italiano pronunciarsi. Un’altra strada, in realtà, sarebbe percorribile e l’Assemblea permanente per i diritti umani di San Rafael non la esclude a priori. A Roma, infatti, vive un illustre argentino, che potrebbe facilitare una soluzione del caso. Sì, è proprio Papa Francesco. In Vaticano sono stati inviati alcuni documenti, in due distinte occasioni: nella prima, è stata comunicata l’avvenuta ricezione; nella seconda, neanche questo. Padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana, ha dichiarato: «Tutti ricorrono a Papa Francesco come se potesse risolvere ogni problema. Se la giustizia italiana non ha concesso l’estradizione, che possiamo fare?».



 
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