Post-verità, la parola che manda in tilt l’establishment

di Marina Valensise
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Giovedì 17 Novembre 2016, 00:04
Post, post it, postmoderno, post-verità. Un posto a parte per i postkantiani.
E chi non ricorda il motto di spirito di quel famoso professore universitario che, esasperato dall’ostinazione dello studente asino, reagì sfidandolo in seduta di esame: «Se lei riesce a dimostrarmi che questo Postkant era nato a Postkönigsberg, le metto trenta». Adesso però dobbiamo abituarci a una nuova parola: “post-truth”, che in italiano potrebbe diventare “post-verità”, se non fosse per l’attrito tra le due consonanti sorde - dentale e labiale - che rende il termine impronunciabile. Dunque, meglio tradurre con “verità a prescindere”, come diceva Totò, che ha sempre il buon senso dalla sua parte.
A decidere il trionfo del nuovo termine è stato il presidente dell’Oxford Dictionary, Casper Grathwhol, che l’ha decretata «parola internazionale dell’anno». Il nuovo lemma ha sbaragliato altri due insidiosi concorrenti: “alt right”, contrazione di “alternative right”, aggettivo che definisce un gruppo della destra alternativa, reazionaria, conservatrice, e antisistema; e “brexiteer”, altro termine oggi molto in voga, che indica i paladini della Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.

La post-verità, o verità a prescindere, pare abbia vinto grazie alla recente spinta delle presidenziali americane. E infatti, come spiegano i lessicografi di Oxoford, designa casi, eventi, circostanze dove «i fatti obiettivi hanno meno influenza sull’opinione pubblica rispetto a quanta non ne abbiamo gli appelli emotivi, e le convinzioni personali». Gli specialisti puntano su un sicuro successo: «Non mi sorprenderei se il termine diventasse una delle parole chiave del nostro tempo», ha dichiarato il presidente Grathwohl. Ed è facile pensare che la cosa accadrà rapidamente. C’eravamo appena abituati alla gloria del “post-factual vote”, il voto post-fattuale. Nella patria del politicamente corretto, molti commentatori hanno bollato la campagna elettorale più imprevedibile della storia americana come voto di pancia, voto di istinto, voto emotivo sordo agli argomenti razionali, insensibile alla verità dei fatti e al “reality check”. Votano per la Brexit sognando di ritrovare l’Inghilterra degli anni Cinquanta, votano Trump pensando che basti un miliardario misogino per far riaprire le fabbriche in Ohio e risolvere il problema della globalizzazione. Va bene. Ma la parola dell’anno non sarà un altro inganno in cui rischia di cadere il politicamente corretto?

E ricorrere a un neologismo non servirà a liquidare un fenomeno, invece di capirlo? Sarebbe lo stesso atteggiamento degli eurocrati che insistono sull’ortodossia dei conti pubblici senza badare alle ragioni degli stati membri. Allora, assimilare la Brexit, la vittoria di Trump e magari anche il referendum costituzionale, in nome della post-verità, o della verità a prescindere potrà anche titillare la vanità dei lessicografi e dei patiti di neologismi. Ma trattandosi di fenomeni non perfettamente congruenti, non basta etichettarli come “post-verità” per liquidarli politicamente. Vorrebbe dire che chi ha votato per la Brexit e per Trump alla Casa Bianca lo ha fatto senza entrare nel merito, senza analizzare i fatti, senza prestare attenzione alla realtà vera delle cose. Domanda: non sarà un altro modo, politicamente corretto, di bollare a parole e liquidare mentalmente chi ragiona in modo non conforme, chi magari esasperato da un’altra realtà dei fatti, da verità più scomode da digerire, rivendica la scorrettezza politica come una forma estrema di ribellione, come l’ultima risorsa della libertà?
 
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